La gita a Chiasso

Trent'anni di sconfinamenti culturali tra Svizzera e Italia (1935-1965)

A C D E F I

Confine

Il confine inteso sia come luogo fisico che come categoria concettuale è uno dei nodi centrali delle ricerche de “La gita a Chiasso”. Le principali personalità trattate nel progetto sono coloro che più spesso e con risultati più significativi attraversarono sia fisicamente sia idealmente il confine tra Svizzera e Italia nel trentennio 1935-1965, portando con sé conoscenze, materiali (libri, riviste, ecc.), contatti personali, e promuovendo così lo scambio e il dialogo tra le due culture. In maniera analoga, molti degli organi culturali qui analizzati (come la Melisa, la Hélicon, l’ASRI, il Centro Studi per la Svizzera italiana, l’Associazione italo-svizzera di cultura) dovettero la loro stessa ragion d’essere alla presenza di un confine fisico, politico, economico e culturale tra i due Paesi. Centrale inoltre il ruolo del confine nelle vicende di esuli e fuoriusciti/e dall’Italia verso la Svizzera, argomento tuttavia trattato solo marginalmente in questo progetto (cfr. ad esempio Il cammino della speranza di Guido Lopez).

Il confine fisico

Dagli anni Trenta fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale il confine fisico tra Svizzera e Italia fu più luogo di impedimento che di facilitazione agli scambi culturali tra i due Paesi. Nell’estate del 1940, ad esempio, l’annata 1939 della rivista “Archivio storico della Svizzera italiana” (la quale dal 1941 sarebbe divenuta organo ufficiale del Centro Studi per la Svizzera italiana) spedita da Roma verso vari luoghi della Svizzera (biblioteche, università, privati) fu sequestrata alla dogana di Chiasso perché considerata strumento di propaganda sovversiva (cfr. il Decreto del Consiglio federale concernente provvedimenti contro la propaganda sovversiva, CS 1 89), nonostante il suo carattere del tutto accademico ed erudito. Il divieto si sbloccò solo nel marzo dell’anno successivo e solo dopo vari tentativi di conciliazione che coinvolsero, oltre al direttore della rivista Arrigo Solmi, il Ministro d’Italia a Berna Attilio Tamaro (), il direttore della Mondadori e co-fondatore della Melisa Luigi Rusca ( ), e l’ambasciatore svizzero a Roma Brügger.

Dal 16 gennaio 1943 fu invece impedito di attraversare il confine nella direzione opposta all’editore ticinese Carlo Grassi, vicepresidente della Melisa, il quale si recava abitualmente in Italia per affari. L’accusa era quella di far stampare in Ticino “giornali antitaliani” (). Grassi era titolare di diverse imprese editoriali sia in Ticino sia a Milano, e uno dei principali editori transculturali tra Svizzera e Italia in quegli anni.

Il confine politico ed economico

Sul confine tra Svizzera e Italia si collocava anche l’attività delle due principali imprese editoriali transnazionale di quegli anni, la Melisa e la Hélicon, entrambe nate dalle politiche di espansione della casa editrice Mondadori. La Melisa fu fondata a Lugano nel 1939 con lo scopo di ampliare l’attività della casa milanese in Svizzera. La Hélicon, fondata nel 1943, si rivelò invece fondamentale per la sopravvivenza della Mondadori durante la guerra e nel primo dopoguerra: grazie alla stabile situazione politica ed economica della Confederazione, funzionò in quegli anni come rifugio sicuro per i capitali materiali e immateriali della Mondadori (soprattutto diritti di traduzione di opere inglesi e americane), i quali furono poi riutilizzati in Italia nel dopoguerra. In entrambi questi casi la non perfetta coincidenza tra confine politico e confine economico si rivelò quindi un vantaggio per la Mondadori, la quale a cavallo degli anni Trenta e Quaranta seppe correlare con profitto (soprattutto grazie al direttore editoriale Luigi Rusca) l’attività milanese con quella luganese di Melisa ed Hélicon.

La porosità del confine economico tra Svizzera e Italia emerse anche in occasione degli accordi tra la Hélicon e la YMCA di Ginevra per la stampa e la distribuzione tra il 1944 e il 1945 di classici italiani nei campi di concentramento e di rifugiati. Grazie a questi accordi la Hélicon ebbe a disposizione in breve tempo una grande quantità di copie a bassissimo prezzo, che rivendette in Italia negli anni successivi traendone considerevoli profitti.

Il confine ideologico e culturale

Più complicate erano invece le questioni relative al confine ideologico e culturale tra i due Paesi. Esse avevano direttamente a che fare, soprattutto durante gli anni del fascismo, con la definizione stessa di italianità e la natura italofona della Svizzera italiana. Diversi intellettuali sia italiani sia ticinesi sostenevano infatti che il confine culturale tra Italia e Svizzera non coincidesse con quello politico ma si estendesse fino alla linea alpina del Gottardo: la Svizzera italiana, in altre parole, benché politicamente in territorio svizzero, apparteneva culturalmente e ideologicamente all’Italia, della quale era una sorta di appendice estera (si vedano ad esempio gli articoli di Lombardo su “Archivio storico della Svizzera italiana” ). Negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta alcuni iniziarono anche ad auspicare la coincidenza tra confine culturale e il confine politico tra i due Stati. A un “odierno iniquo confine” tra Svizzera e Italia accennava ad esempio il 21 luglio 1941 il linguista Clemente Merlo, in una lettera a Luigi Federzoni (Presidente dell’Accademia d’Italia) con la quale accettava di entrare a far parte del consiglio direttivo del Centro Studi per la Svizzera italiana:

Così avessi, prima di chiudere per sempre i miei poveri occhi, […] il conforto di veder corretto anche da questo lato l’odierno iniquo confine, di vederlo sostituito con quello che Iddio segnò alla nostra Patria diletta dal crinale delle Alpi, dal S. Gottardo!

Clemente Merlo

Tale posizione contava diversi sostenitori anche in Ticino, i quali ruotavano soprattutto attorno alla rivista “L’Adula”, spesso considerata organo dell’irredentismo svizzero-italiano. Di visione opposta erano invece intellettuali elvetisti come Giuseppe Zoppi, Fritz Ernst e Guido Calgari (fondatore e direttore di “Svizzera italiana”), per i quali la Svizzera italiana conservava un’identità autonoma nei confronti sia del resto della Confederazione sia dell’Italia: essa era dunque delimitata culturalmente da due confini, uno a Sud, coincidente con la linea di frontiera, e uno a Nord, ossia la linea del Gottardo.

Il confine nel dopoguerra

Dopo la caduta del fascismo e dei propositi irredentisti, il dibattito sul tema del confine si attestò quindi sulla dimensione della separazione culturale. Lungo tutti gli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta al centro della questione non fu più tuttavia il confine tra Svizzera e Italia, bensì quello tra Svizzera italiana e Svizzera tedesca. Diversi intellettuali ticinesi (tra cui Guido Calgari ed Eros Bellinelli) cominciarono infatti a denunciare a gran voce il fenomeno dell’intedeschimento, ossia della massiccia penetrazione in Ticino di persone e capitali svizzero-tedeschi. Essi erano accusati di introdurre una cultura germanofona assai diversa da quella locale e senza alcun tentativo di integrazione: nascevano così nel cuore della Svizzera italiana scuole, giornali e istituzioni germanofone che rifiutavano di dialogare con quelle già presenti sul territorio. Se durante la guerra il tema l’intedeschimento era stato usato dagli intellettuali fascisti e irredentisti come arma ideologica per la difesa e l’affermazione dell’italianità del Ticino, dall’immedaito dopoguerra esso cominciò a entrare trasversalmente nei discorsi di gran parte della stampa ticinese, spesso dando luogo anche a scontri interni. Dal novembre 1945, ad esempio, dalle colonne di “Libera Stampa” Eros Bellinelli ed Ezio Canonica avviarono una polemica nei confronti di Guido Calgari, accusato, tra le altre cose, di connivenza con gli interessi svizzero-tedeschi: in tale dibattito (per cui cfr. la scheda su “Svizzera italiana”) si scontravano due generazioni di intellettuali, una più conservatrice (Calgari) e una più giovane e di matrice socialista (Bellinelli).


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