La gita a Chiasso

Trent'anni di sconfinamenti culturali tra Svizzera e Italia (1935-1965)

A C D E F I

Fascismo


I rapporti degli ambienti culturali italofoni svizzeri con il regime fascista sono stati oggetto di numerosi studi, nella fattispecie per il Ticino e la Svizzera romanda. Meno studiato appare invece il contesto svizzero-tedesco, dove pur operarono importanti figure quali Martha Amrein, Elsa Nerina Baragiola, Fritz Ernst, Reto Roedel, Theophil Spoerri, Giuseppe Zoppi tutti gravitanti intorno a Zurigo. Sul modo di affrontare l’inscindibile nodo che legava la diffusione della cultura italiana in Svizzera alle mire propagandistiche del fascismo, questo polo dell’italofonia zurighese si trovò spesso in contrasto sia con il contesto ticinese (e nella fattispecie con il gruppo di Guido Calgari) sia con quello francofono e nella fattispecie con Losanna. Il caso del Centro Studi per la Svizzera italiana, attivo a Roma dal 1941-1943, e del suo organo l’«Archivio storico della Svizzera italiana», così come la fondazione della rivista «Svizzera italiana» per opera di Calgari nel 1941 denunciano uno stesso atteggiamento di distanza e di implicita dissociazione del gruppo zurighese da tali iniziative. I motivi erano molteplici. Nel caso della rivista calgariana, alla quale gli zurighesi rifiutarono di collaborare, giocò con ogni probabilità l’aperta ostilità di Calgari e Janner verso il circolo luganese di Angioletti, non condivisa da Zoppi e sodali. Nel caso del Centro Studi, invece, nel cui comitato sedeva Francesco Chiesa, e dell’«Archivio storico» cui nessuno degli zurighesi collaborò, più che i sospetti di irredentismo, che certamente ci furono ed erano condivisi dal gruppo calgariano, giocò l’implicita tendenza dell’«Archivio» (e un discorso analogo vale per «Svizzera italiana») a ridurre la realtà italofona svizzera al Ticino dimenticando, come ebbe a dire Ernst, che «un po’ di Svizzera italiana si ritrova da per tutto, anche qui a Zurigo».

Tale fatto è indicativo di una sostanziale disparità di vedute sul modo di intendere l’ideologia dell’elvetismo, ovvero la peculiare forma svizzera di resistenza alla propaganda fascista che, nel caso dell’italofonia elvetica, faceva perno su un concetto di italianità opposto alla retorica della razza del regime mussoliniano. Ma se l’elvetismo modulato sulle corde dell’italianità tendeva in Ticino a risolversi sostanzialmente in un «chi da nüm» (per marcare, sì, la propria differenza dall’italianità fascista sul fronte esterno, ma anche per chiudersi a riccio sul fronte interno verso il paventato pericolo dell’«intedeschimento»), negli ambienti intellettuali italofoni zurighesi l’elvetismo, sul modello di un Ernst o di un von Salis, insisteva invece sulla dimensione “europea” che non era poi altro che un “bi üs” allargato all’intera area confederata per puntellare i confini esterni, secondo i principi della difesa spirituale del Paese dettati da Etter.

Se è vero che gli ingenti sforzi (anche economici) del fascismo per la diffusione della cultura italiana all’estero avvenivano in funzione dell'”organizzazione del consenso”, occorre tuttavia molta cautela nel fare di tutta l’erba, alla lettera, un fascio. Il semplice fatto che le attività culturali oltre confine venissero attentamente monitorate e spesso incoraggiate dal regime nell’ottica dell'”organizzazione del consenso”, non significa che le persone coinvolte non agissero poi per interessi che in parte o in tutto esulavano da quelli del regime. È il caso, ad esempio, di Giovanni Ferretti e del “Centro Studi”, chiuso per non aver assolto alla sua funzione “irredentista” e aver perseguito interessi meramente scientifici. Ma è il caso anche della Melisa e di Luigi Rusca, la cui attività perseguiva scopi in primo luogo commerciali con finalità almeno in parte (se non del tutto) diverse da quelle che impropriamente gli sono state a volte attribuite.1 D’altro canto di fronte ad iniziative espressamente di regime come la fondazione dell’Associazione Svizzera per i rapporti culturali ed economici con l’Italia, appare poco plausibile affermare che le varie personalità del mondo accademico zurighese coinvolte nel comitato direttivo fossero all’«oscuro delle trame tessute a loro insaputa»:2 talmente palese e calcolata (nel caso degli industriali e finanzieri che sedevano nel medesimo comitato) era l’indole filofascista delle manifestazioni organizzate, per tacere dei rapporti personali che legavano il Presidente Abegg a Mussolini. Questo per dire, e paradigmaticamente lo dimostra il caso della mostra su Il bel libro italiano moderno allestita a Zurigo e Losanna, come la diffusione della cultura italiana in Svizzera dovesse per forza di cose scendere a compromessi con il regime fascista, e come nel tentativo di mantenere i rapporti di buon vicinato finisse per generare una dialettica ambiguamente oscillante tra il polo del fiancheggiamento e il polo del distanziamento.


  1. Appaiono alquanto discutibili, se non del tutto ingiustificate, le conclusioni che Codiroli trae da alcune carte studiate da G.F. Bianchi e che fanno di Rusca una specie di funzionario perfettamente organico al MinCulPop. Cfr. Pierre Codiroli, Tra fascio e balestra. Un’acerba contesa culturale (1941-1945), Locarno, Dadò, 1992, pp. 25-26 e nota 29.
  2. Cfr. ivi, p. 23.

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