9. Ostilità della Natura, parte 2



Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l'uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l'animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l'ordinario); tu non hai dato all'uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne' paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall'aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l'uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all'una o all'altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un'ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c'insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci opprimi.

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In questa parte di testo riprende l’enumerazione dei mali iniziata al segmento 7 e interrotta per dare sfogo alla parentesi discorsiva sul tema del piacere del segmento 8. La scoperta di una Natura che ha fatto in modo che «l'uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo» sembra giustificare la ragionevolezza delle scelte nel programma dell’Islandese, ovvero «vivere una vita oscura e tranquilla», senza tentar di procurar dispiaceri, né tentando di godere in alcun modo, in modo da tenersi «lontano dai patimenti» (segm. 3). Ma l’esperienza nel mondo rivela l’impraticabilità e l’inesattezza del procedere per sillogismi caratteristico dei ragionamenti dell’Islandese. L’avversativa iniziale di questa sequenza, opponendola alle precedenti, introduce infatti la considerazione dettata proprio dall’esperienza che pone fine a tali pensieri: «in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie». L’astensione dalla ricerca del piacere non porta dunque alcun frutto, i dolori e le oppressioni non cessano, e oltre alle «infermità» l’Islandese si avvede pure dell’incombenza della «morte», la più estrema ed inevitabile di quelle che Sole (2002: 153) chiama le «tre sventure biologiche».

L’elenco delle avversità e delle contraddizioni insite in natura (dove anche gli elementi indispensabili alla vita, quali il sole e l’aria, sono portatori di tormento) si conclude con l’espressione ultima della nuova esperienza dell’Islandese, che corrisponde alla presa di coscienza della vera condizione in cui l’uomo si trova. Avendo sperimentato sulla propria pelle l’asprezza della vita, che non riserva ombra di piacere, mentre offre pene innumerevoli («non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un'ombra di godimento»), egli comprende che all’umanità «è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria». Come nota Blasucci (1970: 661), le considerazioni a cui giunge l’Islandese non sono da ritenere innovative perché con esse egli scopre la presenza dei mali esterni: anche nella visione anteriore di Leopardi, come già si accennava al segmento 3, i mali esterni, fisici - benché definiti “accidentali” e dunque considerati di minor entità rispetto a quelli dovuti al non poter giungere al piacere - erano comunque presenti. La novità di questo discorso sta perciò nell’aver svelato la «sistematicità nell’ordine delle cose naturali» (Blasucci, 1970: 661), nell’aver quindi scoperto che il patimento è “necessario”, essenziale, parte costituente della vita umana, e non v’è modo di sfuggire al destino imposto dalla Natura.

Dietro al destino dell’uomo emerge dunque la Natura, che oltre a vanificare quelle che Sangirardi chiama le «rinunce suggerite dall’esperienza» (2000: 154-5) (l’astensione dal piacere ne è un esempio), va ad incarnare l’odio e l’indifferenza che a questo punto non risparmiano più nessuno, neppure gli animali (cfr. segmenti 6 e 7): «tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue», accusa l’Islandese, e continua: «sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere». L’esperienza del mondo conduce dunque l’Islandese alla consapevolezza di quello che è un destino non solo individuale, ma dell’umanità intera e, soprattutto, non più riservato unicamente all’uomo, ma esteso a tutte le creature, che vanno ora a far parte del sistema in qualità di vittime, anch’esse subordinate alla legge della Natura cieca e implacabile (cfr. segmenti 7 e 15). Come verrà esplicitato nella risposta della Natura all’accusa dell’Islandese (segmento 11), è proprio questa legge che cancella ogni residua speranza in una possibile felicità. Contrariamente agli esseri umani, che rappresentano un ostacolo alla felicità ma che, se si ha «volontà vera di fuggirli», cessano di tormentare, la Natura si presenta così agli occhi dell’Islandese come un’entità superiore ed imperscrutabile, predisposta unicamente all’oppressione dell’uomo, dalla quale fuggire è improponibile.
 

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