6. Il viaggio Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d'impedire che l'esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose non m'inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. ******************************************************************************************************************** Il segmento qui analizzato è cruciale per la comprensione del processo di presa di coscienza che l’Islandese sta narrando. Il discorso poggia nuovamente sulla ferma posizione di ricerca di una vita quieta, condotta senza procurar «noia né danno a cosa alcuna del mondo». Avendo constatato le rigidità climatiche dell’isola nativa, il nostro protagonista si propone di partir per un viaggio alla volta di altri «luoghi e climi», con l’unico intento di «vedere se in alcuna parte della terra [potesse] non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire». Inevitabilmente, a seguito del confronto con l’ostilità della Natura, la prospettiva di analisi dell’Islandese circa propria condizione di infelicità va cambiando e si rivela in questo passaggio già sostanzialmente diversa: è sempre più il «patimento», e non l’irraggiungibilità del piacere ad essere considerato cagione di infelicità, come ha sottolineato Blasucci (1970: 665). Dopo essersi facilmente isolato dagli uomini e dalla società, entrambi ostacolo al raggiungimento del piacere, l’Islandese scopre infatti con rammarico di non poter sfuggire ad infinite sofferenze. Restando pertanto coerente nella sua linea di analisi, egli procede nuovamente per esclusione, ritenendo questa volta plausibile la possibilità che sia ancora e solamente l’uomo il colpevole delle proprie sventure, perché, forse, venutosi a trovare al di fuori dei confini prescritti «alle abitazioni umane», va contro alle leggi della Natura. L’Islandese tenta ancora di restare all’interno del proprio “sistema”, additando l’errore umano e cercando quindi di correre ai ripari, cangiando «luoghi e climi». Quest’ultimo estremo tentativo di appigliarsi alle certezze della sua esperienza iniziale, sebbene destinato al fallimento (perché come vedremo gli elementi si rivelano ostili in qualsiasi parte del mondo), indica tuttavia che una svolta importante nel pensiero dell’Islandese è avvenuta: la Natura, alla quale egli si indirizza direttamente qui per la prima volta dall’inizio del suo discorso, viene nominata e presa in considerazione, (anche se solo per un istante e attraverso il modo della negazione) come possibile colpevole della condizione umana di «difficoltà e miseria». Interessante anche rilevare come l’Islandese, soprattutto in questo «pensiero che [gli] nacque», inizi ad avvertire maggiormente l’universalità della propria condizione di sventura: viene mantenuta la distinzione con «i generi degli animali, e di quei delle piante», ai quali pare sia stato riservato un trattamento di maggior riguardo, ma dall’individualità delle proprie sofferenze viene estratta, seppur solo in forma di mera speculazione, una sorta di legge che tocca «gli uomini» tutti. Si vanno così sottilmente a sviluppare le fazioni a confronto: l’Islandese, voce dell’umanità, da un lato, e la Natura dall’altro, ritenuta in maniera crescente responsabile dell’infelicità degli uomini. vai al precedente vai al successivo |
||
![]() |
![]() |
![]() |