5. La solitudine


Fatto questo, e vivendo senza quasi verun'immagine di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l'intensità del freddo, e l'ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m'inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl'incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d'esser quieta; riescono di non poco momento, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell'animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini.

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Nella porzione di testo qui evidenziata l’Islandese ripropone gli aspetti salienti del suo programma e si vede costretto a discutere della seconda difficoltà che impedisce il conseguimento di un esito positivo nella sua ricerca. Avendo eluso i mali provenienti dallo stare in società cogli uomini, il nostro protagonista, ora nella solitudine auspicata, resa possibile dalla geografia della sua isola, si trova confrontato con le «qualità di quel luogo» che lo assediano senza sosta. Le condizioni climatiche del posto non cessano infatti un istante di affliggerlo ed egli si trova a considerare che, pur avendo deciso di condurre una vita «sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza», non gli è concesso di sfuggire al «patimento».

L’austerità di questo modo di vita porta l’Islandese a paragonare nuovamente la vita in solitudine alla vita in società: in quest’ultima condizione l’uomo ha l’animo talmente assorto nei pensieri dovuti alla «vita civile» e alle «avversità che provengono dagli uomini» che non è in grado di giudicare la gravità delle incomodità di tipo esterno, provenienti da fattori climatici e naturali, e che in realtà sono «molto più gravi» di quello che appaiono all’individuo inesperto. Si profila dunque in queste righe una rivalutazione dei «mali esterni» (vedi segmento 3) da parte dell’Islandese, il quale finora aveva indicato la ragione della propria infelicità principalmente nell’egoismo dell’uomo posto in un contesto sociale, condizione che si rivela inibitoria delle possibilità di raggiungimento del piacere individuale.

Va anche rilevato come l’Islandese, posto di fronte ad una nuova fonte di sofferenza, insista nuovamente sulla propria astensione dal ricercare piacere e dal causare male a chicchessia, mirando solamente alla «tranquillità della vita». La dichiarazione di non colpevolezza dell’Islandese che va qui delineandosi diventa fondamentale nella fase successiva della sua requisitoria. Come vedremo nella lettura dei prossimi segmenti, essa verrà ripresa più e più volte per enfatizzare la vanità dell’agitarsi dell’uomo, posto di fronte ad un nemico non solo malefico e crudele, ma soprattutto indifferente.


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