4. La molestia degli uomini E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli e vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell'isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. ******************************************************************************************************************** In questa parte viene esposta la prima difficoltà che si interpone tra l’Islandese ed il raggiungimento dell’oggetto del suo programma di ricerca, che come si è visto nel segmento precedente, consiste nel voler «vivere una vita oscura e tranquilla, […] lontano dai patimenti». Le buone intenzioni del nostro protagonista son vanificate «già nel primo mettere in opera questa risoluzione», poiché egli è gravemente afflitto dalla «molestia degli uomini». Egli non riesce infatti a focalizzarsi nei suoi intenti – pur evitando di offendere chiunque in alcun modo - perché continuamente ed incessantemente ostacolato dalla presenza degli uomini, i quali, come d’altronde già sapeva, a seguito della loro stoltezza «si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano», causando con le loro azioni «infinite sollecitudini, e infiniti mali» (segm. 3). Va indubbiamente notato che questi pensieri, emersi dalle esperienze passate (vedi l’assunto ideologico del segmento precedente) e presenti («conobbi per prova»), sono pertinenti ad un tipo di discorso che fa trapelare una visione caratterizzata da un tipo di pessimismo cosiddetto "sociale", per usare la terminologia di Blasucci (1970: 657). L’analisi della propria condizione di infelicità nella fase iniziale del discorso dell’Islandese rimane infatti sempre ancorata all’esplorazione di quelle che nel saggio di Blasucci vengono chiamate le «ragioni "interne” della “vita”, ossia dell’individuo, perpetuamente frustrato nella sua richiesta di felicità» (1970: 663-4). La colpevolezza per il mancato ottenimento di felicità è quindi affibbiata ad elementi interni del «sistema» (così lo definisce Sangirardi, 2000: 151): l’uomo, da un lato, che per ragioni intrinseche alla sua natura è vanamente proteso alla ricerca di «piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano» (segm. 3), e la società, dall’altro, considerata da Leopardi come vero e proprio «incentivo all’infelicità umana» (Binni, 1994: 296) perché con i suoi vincoli aizza gli uni contro gli altri, esaltando l’indole egoistica dell’uomo. L’Islandese agisce però con prontezza, decidendo di allontanarsi dalla «società» degli uomini, credendo di eludere in questo modo la causa prima dei propri mali. Al discorso della vita sociale - nella quale l’uomo si trova a vivere solo per una sua disponibilità a conformarsi e a lasciarsi corrompere (Binni, 1994: 297) - viene dunque contrapposto quello della vita in solitudine, alla quale Leopardi, in un pensiero dello Zibaldone, legato peraltro ad una diagnosi di tipo prettamente storico, aveva attribuito una sorta di potere rigenerativo: «l’uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifà, ricupera se stesso» (Zib. 681, 20 febbraio 1821). Come si vedrà tuttavia nel segmento successivo, anche in solitudine il nostro protagonista non è al riparo dagli affanni, anzi: egli è costretto ad alzare il capo ed allargare così la prospettiva di analisi della propria condizione per poter considerare una causa di sofferenza che egli, vivendo tra gli uomini, ancora non riteneva fondamentale. vai al precedente vai al successivo |
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