3. Assunto ideologico; programma dell'Islandese
 

Islandese
. Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l'acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza e dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso.

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In questo segmento si è voluta isolare la parte iniziale della risposta dell’Islandese alla domanda postagli dalla Natura a conclusione delle battute introduttive del dialogo: «ma che era che ti moveva a fuggirmi?»  (vedi segmento 2). L’attacco del lungo discorso dell’Islandese merita un’attenta lettura, perché in esso vengono date le basi ideologiche sulle quali il protagonista costruisce l’invettiva contro la sua interlocutrice, la Natura appunto. Le convinzioni qui esposte vanno ricondotte all’Islandese del passato, nella sua «gioventù», e vengono rievocate dall’Islandese del presente, quello a colloquio con la Natura, in modo da mostrarle le varie trasformazioni che lo hanno accompagnato fino a farlo diventare l’uomo che è, consapevole della responsabilità che ella ha nello stato infelice dell’umanità.

L’importanza di questa porzione di testo, che risiede dunque nella natura della posizione ideologica insita nelle prime articolazioni del lungo discorso dell’Islandese, ha ripetutamente coinvolto l’interesse della critica. La peculiarità delle convinzioni iniziali del protagonista consiste nel suo esser fondata su constatazioni che in altre operette emergono solo a conclusione delle discussioni delle tematiche trattate. Come ha fatto notare Blasucci (1970: 660) nel suo studio fondamentale sullo sviluppo del pensiero Leopardiano, nel nostro libro «il punto di partenza dell’Islandese è […] pressappoco il punto di arrivo del “saggio” delle Operette». Se è inoltre vero che il tema di fondo dominante nel macrotesto è l’esplorazione nei suoi vari aspetti della presa di coscienza della vanità della vita (Blasucci, 1970: 659), nell’Islandese le conclusioni di tali speculazioni vengono innalzate a premessa per un nuovo tipo di esperienza, narrata in seguito dal protagonista e che, come vedremo, rende possibile l’instaurarsi nella sua mente di una concezione della vita sostanzialmente diversa rispetto alle convinzioni qui evocate.

L’esperienza iniziale dell’Islandese dunque – che in sintesi consiste nell’aver provato la «vanità della vita», nel conoscere la «stoltezza degli uomini» e l’infelicità dovuta all’impossibilità di ottenimento del piacere (temi, quest’ultimi, ripresi rispettivamente nel segmento successivo e nell’ottavo) - sembra esser legata ad un tipo di conoscenza che nasce da un’analisi della condizione umana del tipo che Blasucci (1970: 666) chiama «sensistico-esistenziale». Questa visione - frutto dei pensieri di Leopardi negli anni dal 1820-21 al 1824, anno dell’inizio della stesura delle Operette (Blasucci 1970: 627) - pone i mali fisici in secondo piano, subordinandoli al tipo di sofferenza che scaturisce dalla consapevolezza dell’impossibilità di conseguire la felicità (tema all’interno del quale si posizionano i vari sottotemi quali «l’infelicità più acuta dell’uomo moderno, dell’uomo civilizzato, […] degli individui più sensibili e colti» (Blasucci 1970: 645)). Su questo tipo di concezione della vita si basano le discussioni nelle altre operette, ma ciò non vale per l’Islandese, dove appunto l’idea dell’infelicità dovuta a questi mali, di natura storico-psicologica, viene usata semplicemente come assunto ideologico di base, dal quale diventa possibile proiettarsi verso un nuovo tipo di esperienza: quella dell’ostilità della Natura e dei mali, fisici, che da essa derivano. Sangirardi (2000: 151) intravede in questa particolarità dell’Islandese una messa in prospettiva di una visione del mondo, frutto di quella che lui chiama «ideologia dell’esperienza», e questa nuova visione significa mettere in prospettiva «tutto il sistema come si stava esprimendo attraverso le varie voci del libro».

Certo della propria filosofia, fondata su ragionamenti che non rientrano nell’ambito di indagine di questa operetta e che vengono pertanto ricondotti a quelle ‘poche esperienze’ appositamente taciute, l’Islandese racconta così il suo programma: «vivere una vita oscura e tranquilla, […] lontano dai patimenti», senza affidarsi ad alcun tipo di speranza, cercando solamente di non patire, perché già certo di non poter godere. Alla riuscita del programma del «povero Islandese», come si vedrà in dettaglio nella lettura dei segmenti successivi, si oppongono tuttavia una lunga serie di ostacoli, che lo costringeranno a rivedere in maniera drastica la prospettiva dalla quale egli osserva la propria esistenza.


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