8. Il piacere Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all'uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando che tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l'uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. ******************************************************************************************************************** L’incalzante enumerazione dei mali che occupa l’intero segmento precedente - dalla quale trapela in maniera sempre più chiara la crudeltà della Natura - viene interrotta per dare spazio ad una ripresa del discorso sul tema del piacere. Si è visto nella lettura dell’assunto ideologico, espresso nella parte iniziale del suo racconto, come l’Islandese mostrasse di essere a conoscenza della difficoltà nell’ottenimento del piacere e si dicesse convinto che proprio l’inappagamento dell’infinità dei desideri fosse causa dell’infelicità primaria dell’uomo, unitamente alle difficoltà apportate dalla problematica convivenza nella società (vedi segmento 3). Nella porzione di testo qui analizzata l’Islandese, che ha visto ormai ‘quasi tutto il mondo’ (segm. 7), grazie alla nuova esperienza acquisita è in grado di compiere un collegamento tra l’inesorabile afflizione agli umani causata dalla Natura e l’impossibilità di provar piacere che già conosceva. In primo luogo, si profila in maniera nitida la prospettiva dell’infelicità ormai basata unicamente sul patimento, sul dolore reale, già accennata al segmento 6: anche la sofferenza esistenziale dovuta alla consapevolezza dell’impossibile connubio tra desideri e felicità diventa infatti vera e propria sofferenza fisica. Il godere stesso rappresenta «quasi [,] di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita». Significativo in questo senso il fatto che la nota di ripensamento ideologico all’interno della teoria del piacere venga posta in concomitanza con la discussione delle «infermità» che affliggono l’Islandese: le infermità infatti, stando a Sole (2002: 153) vanno annoverate tra le «tre supreme sventure biologiche (“morbi”, “vecchiezza” e “morte”)», anche definite come la «triade dei mali fisici maggiori». Contrariamente a quanto dice Sangirardi (2000: 156), le pene prodotte dal desiderio, in questa nuova concezione, non «lasciano spazio ad alcuna colpevolizzazione della storia e della psicologia umana». Anche questi mali sono ormai considerati dall’esterno del ‘sistema’ e vengono intesi alla stregua di quelli fisici: non concedono pause e pure da essi «non ci si può distrarre» (Sangirardi, 2000: 156). In secondo luogo, il superamento della concezione dell’infelicità umana intesa unicamente nei termini di un pessimismo sensistico-esistenziale permette all’Islandese - e a Leopardi che da abile regista ne inscena il dramma - di proiettarsi verso la formulazione di una filosofia (di tipo estremamente materialistico come dimostra appunto la nuova visione dell’infelicità) volta a discolpare l’uomo «dando la colpa a quella che veramente è rea», per dirla con parole che Leopardi adopererà in una delle sue ultime composizioni, La ginestra, (123-4). La Natura si rivela infatti nella sua malefica contraddittorietà, creatrice dell’’inganno esistenziale’ (Blasucci 1970: 646) che coinvolge l’umanità. Ella è la vera colpevole del dolore legato al non poter vivere in stato di felicità, essendo la fautrice dell’infusione nell’uomo di «tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere» - senza il quale, come sappiamo la vita «è cosa imperfetta» - e facendo però in modo che «l'uso di esso piacere» sia causa di infiniti affanni. Indifferente di fronte anche a chi si dimostra «continente dei piaceri del corpo», la Natura è dunque ritenuta responsabile di tutti i patimenti che affliggono gli uomini, siano essi legati ai «pericoli giornalieri», o all’indole e natura umana, delle quali è la creatrice. vai al precedente vai al successivo |
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