10. La vecchiezza


E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de' viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl'incomodi che ne seguono.

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A conclusione della sua requisitoria l’Islandese si sofferma su un ultimo dettaglio, volto a completare il ritratto di una Natura crudele, malefica, consacrata all’afflizione delle proprie creature. Dopo la prima digressione sulla relazione tra «infermità» e piacere (segmento 8), che ha per un attimo allentato il ritmo sferrante dell’elenco dei mali fisici che opprimono l’uomo (dimostrando che anche la causa maggiore di infelicità esistenziale si risolve in pena fisica), l’Islandese si focalizza ora sull’ultima delle «tre sventure biologiche» (Sole, 2002, 153), la vecchiezza. Essa si rivela essere l’ulteriore ed estremo scherzo della Natura, la quale, non contenta di aver destinato l’uomo ad un’esistenza di sofferenza, ha fatto in modo che quest’ultima abbia l’unica ragione di essere nel suo tendere all’invecchiare, procedendo inesorabilmente verso la morte. Dimodoche la vita umana, in questa nuova prospettiva, è vista come un «tristissimo declinare […]: appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che ne seguono». Tuttavia, il «male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime» che comporta la vecchiezza non è, pur essendo considerato in maniera «definitivamente materialistica» (Blasucci, 1970: 662), casuale o “accidentale”, come lo sono i mali reali, che colpiscono ciecamente. La vecchiezza va infatti intesa come la conferma della presenza della legge crudele di una Natura ‘carnefice’ delle proprie creature, che crea solo per il gusto di poter, in seguito, distruggere.

Degne di nota le implicazioni intratestuali sulla scia del pensiero insito in questo excursus. Infatti, le considerazioni sulla vecchiaia, che qui hanno valenza marginale per l’economia discorsiva dell’operetta, essendo funzionali all’espressione del tema dell’ostilità della Natura, vengono riprese da Leopardi dapprima nel Cantico del gallo silvestre e, in seguito, come indica Blasucci (1970: 662), diventano spunto di ispirazione per varie fasi poetiche. È infatti soprattutto nel Cantico, ultima operetta in ordine di composizione (è del ’24), che si riflettono in maniera importante le nuove posizioni ideologiche a cui Leopardi perviene coll’Islandese. Nel Cantico appunto viene risollevato il tema dell’infelicità umana, in una serie di domande che si accomunano a quelle precedenti dell’Islandese e si riallacciano alle successive del pastore errante:

«Vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? In qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illuminano e scaldano? […] E tu, [sole] sei tu beato o infelice?» (394).

Da quest’osservazione sulla condizione umana di infelicità anche il Cantico procede in direzione del tema posto a conclusione del discorso incluso nei segmenti 3-10 dell’Islandese:

«Vero è che le creature animate si propongono questo fine [i.e. esser felici] in ciascuna opera loro; ma da niuna lo ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi, e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giugnere a questo solo intento della natura, che è la morte» (397).

Sia nell’Islandese, come vedremo (segmento 12), sia nel Cantico, le osservazioni sulla natura dell’esistenza umana vengono estese alla descrizione dell’esistenza universale. Nella nostra operetta, tuttavia, i ragionamenti rimangono orientati verso la ricerca di un motivo che giustifichi le sofferenze delle creature; nella seconda invece, la vanità delle domande dell‘Islandese ed il peso delle risposte date dalla Natura si ripercuotono con veemenza sulla prospettiva del mondo che vi viene dichiarata, estendendo l’idea, espressa a fine operetta (segmento 14), che esso «a poco andare è distrutto medesimamente». Succeda quel che succeda, l’universo intero invecchia e procede verso la propria dissoluzione, senza concedere alcuna spiegazione: «così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi» (Cantico, 401).


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