14. A chi giova?


Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?

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L’ultima domanda dell’Islandese rappresenta, secondo Cellerino (1995:327), «il primo segno nelle Operette» di quello che alcuni giorni dopo la stesura dell’Islandese leopardi chiama l’«orribile mistero delle cose e dell’esistenza universale» (Zib. 4099). Questa visione dell’esistenza, ripresa come detto (a proposito del segmento 10) anche nel Cantico, dove viene concepita come qualcosa di incomprensibile per l’intelletto umano, emerge dal tipo di confronto che coinvolge l’Islandese con l’impassibile attitudine della Natura. Abbiamo visto nei segmenti precedenti in che modo ella abbia eluso le accuse dell’Islandese, nascondendosi dietro l’espressione della legge estremamente meccanicistica di trasformazione e distruzione della materia grazie alla quale il mondo resta in vita. Dal netto contrasto di tono in queste ultime battute emerge con sempre maggiore chiarezza l’impossibilità del dialogo tra le due parti: l’Islandese, da un lato, che con le sue proteste concitate dimostra di non cessare di credere in una Natura che chiami l’individuo ad esistere, perché, come dice Sangirardi (2000: 156), «l’esistenza di questa Natura è l’ultima garanzia, se non più della felicità, dell’esistenza dell’individuo, l’ultima barriera prima dell’annientamento dell’identità psichica»; la Natura, dall’altro, che si chiama fuori dal gioco, giustificando pacatamente le proprie contraddizioni dicendo che esse sono volte unicamente alla salvaguardia dell’esistenza. La non compatibilità dei discorsi che i due interlocutori rappresentano si risolve pertanto nell’affermazione dell’inadeguatezza della filosofia enunciata in questo segmento, concetto molto vicino a quello espresso dal Cantico a proposito dell’ermetica enigmaticità dell’«arcano mirabile e spaventoso» (Cantico, 401) che è l’esistenza universale.

Spetterà alla produzione successiva del Leopardi l’affermazione di quella che si prospetta come unica soluzione a tale increscioso stato di cose, ovvero quella proposta, tipica delle composizioni dell’ultimo periodo dell’autore, di solidarietà tra gli uomini nell’intento comune di combattere la loro vera nemica: la Natura. All’Islandese va il merito di aver denunciato per la prima volta in modo «pauroso e altamente tragico» (Desanctis, in Binni, 1987:51) la vera condizione dell’uomo, ormai solo con la propria ragione, proteso verso una morte tanto incerta nella forma quanto sicura nella sua inevitabilità.


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