12. La villa Islandese. Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura. ******************************************************************************************************************** In questo segmento - fortemento legato al precedente e ai due successivi corrispondenti alle ultime battute dei due interlocutori – l’Islandese replica alle dure parole della Natura. Nonostante ella abbia chiaramente sottolineato la nullità dell’uomo nel mondo, il nostro protagonista non si dà per vinto e, ammettendo di aver compreso che il creato non è stato fatto ‘in servigio degli uomini’ ma piuttosto per il loro tormento, chiede, attraverso l’esempio della villa, il motivo che ha spinto la Natura a dare vita all’uomo. Se l’uomo, gli «animali» e «ogni creatura» sono stati posti sulla terra, chi li ha invitati, ossia la Natura, dovrebbe perlomeno preoccuparsi che la loro permanenza non sia tanto nociva e straziante. Una lettura che si avvale del confronto intertestuale può a questo punto rivelarsi proficua. La critica ha fatto più volte notare come tra le fonti di quest’operetta si debba annoverare il Candide di Voltaire. Tra gli studi che a mio avviso si dimostrano più utili nella comprensione del dialogo che Leopardi instaura con l’intertesto francese è quello recentissima di Sangirardi (2000). Egli rileva come l’episodio della villa della nostra operetta si rifaccia chiaramente all’«exemplum fictum dei topi sulla nave» (2000: 152), con il quale nel Candide viene raffigurata la condizione dell’uomo nel mondo. Nell’ultimo capitolo del libro di Voltaire alle richieste di spiegazioni dei protagonisti sul male presente nel mondo il «Dervis très-fameux, qui passait pour le meilleur Philosophe de la Turquie» risponde che bisogna semplicemente tacere, chiedendo ai suoi interlocutori: «quand Sa Hautesse envoye un vaisseau en Egypte, s’embarasse-t-elle se les souris qui sont dans le vaisseau sont à leur aise ou non?» (1913: 219 ). Di seguito a queste considerazioni, il Candide propone la seguente soluzione di vita: «travaillons sans raisonner; […] c’est le seul moyen pour rendre la vie suportable» (Voltaire, 1913, 223). Non potendo indagare sulle ragioni del male nel mondo, non potendo sperare di ottenere felicità, a Candide e compagni non rimane altro da fare che accantonare le verità a cui son giunti e cercar di sopravvivere in tale realtà, crudele ed inintelleggibile. Nell’Islandese, d’altro canto, viene dimostrato che tale soluzione non è attuabile: al «facile appello a cultiver son jardin», come lo definisce Binni (1982: 103) viene contrapposta l’avventura del povero Islandese, che, nel proposito di «vivere una vita oscura e tranquilla» (segm. 3) si vede costretto a fuggire dal proprio giardino, a dimostrazione che quelle che Sangirardi chiama «rinunce suggerite dall’esperienza» (2000: 154) non portano giovamento. La felicità tanto agognata, esattamente come nel Candide, non si lascia trovare da nessuna parte: anzi, come si è visto, la condizione umana si rivela esser costituita unicamente da momenti di sofferenza e patimento. Le domande della parte finale del segmento qui analizzato hanno origine proprio in questo tipo di esperienza, fatta di dolore e privazioni, e vanno a rappresentare l’esatto «contrario del silenzio comandato dal Dervis» (Sangirardi 2000: 156). Impersuaso dalle motivazioni date dalla Natura l’Islandese insorge e (come nella parentesi discorsiva sulla tendenza dell’uomo alla ricerca piacere (segmento 8)) - punta il dito nuovamente contro le vergognose contraddizioni che la caratterizzano e che vanno inevitabilmente a riversarsi sull’andamento dell’universo intero. Perché creare l’uomo e porlo contro sua volontà sulla terra, dove tutto sembra essere inteso alla sua distruzione? Sulla scia della conclusione del segmento 9, dove termina il resoconto delle disavventure per il mondo dell’Islandese, l’invettiva intesa in termini inizialmente individuali assume nella porzione di testo qui analizzata ancora una volta la prospettiva cosmica: «questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura». vai al precedente vai al successivo |
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