I referendum de «La Chiosa»


Nel corso della sua attività, «La Chiosa» dimostra di aver fatto propria la formula del sondaggio, che promuoveva il coinvolgimento del pubblico nell’elaborazione del prodotto-giornale. ((Dittrich-Johansen 1995, p. 823.)) La promozione del dibattito mediato tra le lettrici contribuiva alla loro fidelizzazione e i vari contributi permettevano di ottenere la ‘temperatura’ della coeva opinione pubblica.

Una «Chiosa» alla famiglia

In concomitanza con la discussione in Parlamento del progetto di legge di Guido Marangoni e Costantino Lazzari sul divorzio (1920), «La Chiosa» indice un referendum in materia (febbraio-aprile 1920), ribadendo la linea antidivorzista della testata. Le dinamiche di genere attive nel contesto coniugale saranno poi indagate in altri tre sondaggi: “Mi volete sposare?” (novembre 1920-marzo 1921), “Le qualità del marito ideale” (luglio-ottobre 1921) e “Le qualità della moglie” (dicembre 1921-marzo 1922).

Lo spunto per il sondaggio “Mi volete sposare?” proviene dalla cronaca internazionale e, in particolare, dalla decisione del governo francese di tassare i celibi e le nubili oltre una certa fascia di età. La misura è così commentata da Donna Paola nell’articolo La zitellona “voce” fiscale ((anno II, n. 30, 22 luglio 1920.)) : «La Francia indebitata come l’Italia, non ha avuto riguardo alle sue molte Saffo e alle sue molte Lesbia, con passero o senza passero: bisognava trovare nuovi cespiti al bilancio – e la Francia, ex cavalleresca ed ora soltanto computista, ha applicato una tassa sulle donne che, a trent’anni, sono ancora senza marito». Nel lanciare il referendum, la redazione ragiona sul «criterio di penalità contenuto in questa tassazione [che] presuppone nel legislatore il concetto che, del fatto di non aver preso o trovato marito, una parte di responsabilità spetta dunque alla donna». ((Mi volete sposare?, anno II, n. 48, 25 novembre 1920.)) Invece, oltre a ragioni economiche e pratiche, anche le dinamiche di genere ostacolano l’“impresa” matrimoniale delle donne, perché gli usi sociali non prevedono che queste prendano l’iniziativa nel rapporto amoroso. «Partendo da questa considerazione, La Chiosa chiede alle sue lettrici se ritengono che una fanciulla possa, senza venir meno al riserbo e alla correttezza tradizionali, far comprendere a un uomo la sua simpatia e se questa sua iniziativa possa giungere sino alla schietta espressione del desiderio di essere richiesta in moglie». ((ivi.)) Il sondaggio ha successo, e vengono pubblicate oltre 100 risposte, inviate sia da uomini sia da donne. I vari contributi cercano di riformulare le interazioni tra i sessi rappresentando un ampio ventaglio di possibili comportamenti femminili, che vanno dall’assoluta passività, ((«1. No: una donna non deve far conoscere a un uomo i suoi sentimenti, la sua dignità glielo vieta. Gli uomini sanno indovinare senza bisogno di venir guidati. 2. No. È assurdo che sia la donna a dire all’uomo: – Mi volete sposare? Io preferirei morire zitella. Già sin troppo le donne si sono mascolinizzate in tutto: questo sarebbe troppo», Rosetta Pedemonte Gamalero, Mi volete sposare?, anno III, n. 6, 10 febbraio 1921.)) a una schietta intraprendenza. ((«Perché no? Se l’intenzione è di essere una buona moglie e una degna madre, non vedo proprio perché non dovrei poter dire a un uomo del quale credessi di indovinare una deferente simpatia: – Volete che si percorra insieme la vita?», Clara Rimini, Mi volete sposare?, anno III, n. 8, 24 febbraio 1921.)) Nel commentare i risultati dell’inchiesta, Steno si dice a favore di una maggiore libertà femminile nell’esternare le proprie simpatie e nel formulare la richiesta di matrimonio, pratiche che avrebbero influenzato positivamente le interazioni tra i sessi, improntandole a una maggiore schiettezza e spontaneità.

A pochi mesi di distanza, «La Chiosa» si interessa nuovamente di dinamiche matrimoniali, invitando le sue lettrici a indicare “Le qualità del marito ideale”: «La fedeltà? La laboriosità? La schiettezza? L’audacia? Il coraggio? La bellezza? La salute?». ((Il “referendum” della campagna. Le qualità del marito ideale, anno III, n. 28, 14 luglio 1921.)) Il senso e lo scopo del sondaggio sono ribaditi da Steno nel commento delle numerose risposte pervenute: «Noi siamo per il matrimonio indissolubile […]. Ma il fatto di considerare altissimamente la dignità matrimoniale e in quanto è sacramento e in quanto è sanzione sociale, non ci impedisce di riconoscere quanto sia difficile raggiungere nel matrimonio quella felicità serena, sicura, piena e costante, che pure dovrebbe essere possibile di raggiungervi». ((Commenti a un Referendum, anno III, n. 42, 20 ottobre 1921.)) È «il più debole dei coniugi» a soffrire maggiormente dei dissidi coniugali che sorgono, secondo Steno, anche in ragione di una poco avveduta scelta del partner. Il sondaggio si proponeva quindi di indagare quali fossero, per le donne, le cinque caratteristiche irrinunciabili di un marito ideale. Buona educazione, fedeltà, senso di responsabilità, intelligenza e tenerezza sono le doti più quotate. «Francamente approviamo», conclude la giornalista, promettendo di lanciare, a breve, un’inchiesta speculare sulle qualità della moglie.

Quest’ultima viene introdotta da una premessa sul significato del matrimonio per le donne: «vogliano o non vogliano le femministe, questa [la vita matrimoniale] resterà sempre, fra tutte le vie aperte alla donna, la più naturale e la più soddisfacente, perché conforme allo scopo che natura ha assegnato alla donna: quella di essere compagna dell’uomo». ((Le qualità della moglie, anno III, n. 50, 22 dicembre 1921.)) Ciò malgrado, non tutte le donne riescono a conseguire lo status di moglie, sia per le difficoltà economiche sia per la riluttanza maschile a sposarsi. Il referendum si propone di essere «un indice così delle aspirazioni di ogni candidato al matrimonio come delle disposizioni con le quali una donna si prepara a diventare sposa e madre. E forse contribuirà a dissipare in parte il malinteso profondo che esiste tra i giovani e le fanciulle della nostra generazione e che allontana gli uni e le altre da quella vera e sana felicità che soltanto la famiglia, solidamente costruita e riscaldata dall’amore, può dare». ((ivi.)) Al termine dell’inchiesta, Steno raggruppa i partecipanti maschili in due gruppi: gli esigenti e i diffidenti. I primi «dalla donna pretendono tutte le virtù e tutte le doti, anche le contraddittorie», con una «sicumera […] incredibile» ed «odiosa» ((Flavia Steno, Uomini e donne nel matrimonio. Commenti a un Referendum, anno IV, n. 14, 6 aprile 1922.)) I secondi, invece, esprimono dubbi rispetto a tre atteggiamenti femminili: l’eccessiva socialità (l’esempio è quello della frequentazione dei balli pubblici), l’amore per il lusso, il lavoro (con particolare riferimento alla categoria delle impiegate). I vari interventi al sondaggio individuano, quindi, degli ambiti in cui con più evidenza si manifestava un cambiamento dei comportamenti femminili verso una maggiore emancipazione. Se Steno spezza una lancia in favore delle lavoratrici, ((«Noi abbiamo sempre sostenuto, sosteniamo e sosterremo il diritto della donna a lavorare, a intraprendere qualsiasi carriera che non sia in contraddizione con le sue capacità, attitudini ed esigenze fisiologiche».)) concorda però con i lettori «nel ritenere poco… matrimoniabile una signorina che frequenti le sale da ballo, le… Accademie (!!!) da ballo, i the danzanti mascherati o non da scopi di beneficenza […]». ((ivi.)) Più articolata la questione del lusso femminile che, non a caso, sarà ulteriormente sviluppata sia in articoli sia in altre due inchieste bandite dal settimanale. L’eccessiva attenzione delle donne verso la propria bellezza, per curare la quale investono tempo e risorse, è ricondotta da Steno a delle rodate dinamiche di genere: «In fondo, se le donne adorano le cose belle, le cose fragili, le cose squisite e preziose, che possono da sole riuscire a creare una bellezza artificiale sostituente la bellezza autentica assente o sfiorita o perduta, è unicamente perché hanno appreso dall’uomo il valore incommensurabile, assoluto della loro bellezza, perché dall’uomo hanno saputo che essere belle è il loro solo dovere, la loro massima gloria, la scusa di tutte le loro debolezze, la condizione assoluta della loro felicità». ((ivi.))

Donne, lusso ed eleganza

Un altro tema sottoposto all’attenzione del pubblico riguarda, invece, l’austerità femminile letta in chiave patriottica. Sulla questione si soffermano rispettivamente “Il vestito unico femminile” (aprile-settembre 1920) e “Il dilemma del lusso” (dicembre 1922-aprile 1923).

Il referendum sul vestito unico femminile lanciato da Steno nell’aprile 1920 è definito «geniale» da Laura Casartelli Cabrini, curatrice della rubrica Rassegna del movimento femminile italiano del prestigioso «Almanacco della donna italiana» (Firenze, Bemporad, 1920-1943). Il sondaggio faceva parte di una più articolata campagna al femminile in favore dell’austerità, che si traduceva in diverse attività: dalla Settimana dell’Industria Nazionale, promossa dal Consiglio Nazionale delle Donne Italiane alla fondazione di diversi Comitati contro il lusso. Steno interveniva sul tema proponendo l’introduzione del tailleur come unico vestito femminile e chiedeva così l’opinione di lettrici e lettori:

«1. Stabilita la necessità di porre un freno al lusso femminile e al capriccio della moda, convenite che il solo mezzo pratico, reale, efficace sia l’adozione di un tipo unico di vestito femmiinle così come esiste il tipo unico di vestito maschile?
2. Ammesso questo tipo unico di vestito, convenite che il “tailleur” possa rispondere allo scopo?
3. Aderite alla riforma del vestito femminile così esplicata: “tailleur” tipo inglese con blusa bianca o colorata in tela, lino, cotone foulard per la strada; “tailleur rèdingote” con blusa in tessuto di seta e in tinta per la toeletta da visita o da piccolo ricevimento e blusa in “chiffon” o velo o pizzo per teatro e piccola serata?». ((Uccidiamo il lusso, anno II, n. 17, 22 aprile 1920.))

Steno inaugurava il referendum ragionando sulle coeve iniziative contro il lusso e ricordando, ad esempio, le prese di posizione di diversi uomini politici, religiosi e intellettuali: «Il Papa e Marinetti d’accordo nell’anatema, ecco una novità gustosissima. Ma bisogna convenire che se questi estremi si sono incontrati nel proclamare la stessa necessità, questa necessità dev’essere davvero urgentissima». Steno evidenzia come il comune denominatore della lotta al lusso sia di natura economica e non culturale: «se domani, per un colpo di bacchetta magica, i bilanci di tutti gli Stati fossero pareggiati e la produzione avesse ripreso in tutta la sua efficienza e il mondo non fosse che una immensa officina aiutata da una organizzazione dei trasporti perfetta, voi udreste la stessa gente che oggi stigmatizza il lusso, tenervi un linguaggio opposto, esaltare l’eleganza come ausiliario indispensabile della bellezza, proclamare il diritto della donna ad adornarsi come un idolo, nobilitare i capricci della moda come stimolo di lavoro e fonte di lucro per categorie intere di lavoratori». Al contrario, la direttrice de «La Chiosa» propone l’opzione del vestito unico femminile per operare una riforma della femminilità e «guarire la donna dalla vanità e portarla, attraverso il disprezzo della moda, a quella concezione più alta e più seria della vita senza la quale è inutile sperare nell’avvento della donne nuova». La maggior parte dei contributi al referendum pubblicati dal settimanale sono in favore del vestito unico femminile, ma vengono anche espresse delle riserve, così riassunte nell’articolo di chiusura del sondaggio: «Il tailleur mascolinizza la donna. Il tailleur non è ammissibile come vestito… di parata. Il tailleur esigendo una confezione perfetta e stoffe ottime, non risponderebbe i criteri di economia che debbono presiedere all’abbigliamento femminile nelle attuali circostanze di crisi finanziaria e di produzione». ((Concludendo. Il vestito femminile. Le ultime risposte al nostro Referendum, anno II, n. 26, 24 giugno 1920.)) Nello stesso articolo Steno risponde punto per punto alle obiezioni, e, concludendo, ribadisce l’intenzione della testata di continuare la riflessione sui temi del lusso e dell’abbigliamento femminile.

In effetti, se già in giugno «La Chiosa» aveva dato grande spazio all’organizzazione e ai (contenuti) risultati della Settimana dell’industria nazionale, che si prefiggeva la promozione, appunto, dei prodotti autoctoni rispetto a quelli di importazione, il mese successivo pubblicava un articolo di Donna Paola sul Convegno del Vestiario femminile (Roma, 5-6 luglio 1920). La giornalista riportava, tra le altre cose, l’intervento di Lidia de Liguoro, che riformulava in termini nazionalisti la ‘lotta al lusso’, opponendosi cioè recisamente ai prodotti di importazione, ma non al lusso locale.

Sul tema, Steno ritorna puntualmente nell’ottobre del 1922, commentando una circolare diramata da Lucien Dior, Ministro francese dell’Industria e Commercio. Il politico invitava a vedere la moda e il lusso femminili come motori dell’economia e lamentava i danni dell’austerità femminile alle industrie legate all’abbigliamento. La giornalista difende invece la nuova tendenza delle donne alla semplicità nel vestiario: «Chi ci dice, infatti, che la guerra non sia per fare, nel campo della moda femminile, quello che la rivoluzione francese fece per la moda maschile: di delineare, cioè, e di imporre a poco a poco il tipo di vestito unico? Se ciò dovesse avvenire, i vantaggi che sarebbero per derivarne nel campo dell’economia domestica, del benessere famigliare, della elevazione morale della donna sarebbero tali da compensare certo larghissimamente il passeggero dissesto di certe industrie secondarie dell’abbigliamento». ((Flavia Steno, Un rovescio delle Leggi Suntuarie, anno IV, n. 42, 26 ottobre 1922.)) Ritorna, insomma, il tema del vestito unico e della semplificazione della moda, inteso come strumenti di elevazione delle donne e di miglioramento della loro condizione. Il lusso, secondo Steno, sarebbe da lasciarsi all’élite, promuovendo «una legge suntuaria alla rovescia: che imponga, sì, il lusso, come una necessità economica, ma soltanto a chi può ottemperarvi senza pregiudizio di danni assai peggiori di quelle che si vuole evitato». ((ivi.))

La questione, però, può anche essere guardata da un altro punto di vista: «In quest’epoca in cui si grida da ogni parte contro ogni spreco e non si parla che di riduzione di spese, è condannabile il lusso femminile? I denaro che esse gettano in fronzoli e stracci, è bene speso perché, come si dice, dà da guardagnare e da lavorare, o è male speso perché grava come primo peso nel bilancio della famiglia? O, impostando il problema dal lato che più ritiene studio, il lusso della donna favorisce la rovina o la salvezza della nazione?». ((Elisa Pellizzari Tognini, Il dilemma del lusso, anno IV, n. 49, 14 dicembre 1922.)) Queste domande vengono sottoposte a lettrici e lettori nel sondaggio Il dilemma del lusso. La prima opinione rappresentata è quella di Filippo Tommaso Marinetti, che «ci manda uno dei suoi tanti bizzarri manifesti futuristi intitolato appunto: Contro il lusso femminile, di cui riproduciamo, per motivi intuitivi, solamente il poco riproducibile». ((Il dilemma del lusso. Nostro referendum, anno IV, n. 50, 21 dicembre 1922.)) Delle numerose risposte pervenute, Steno stilerà un bilancio nel numero del 5 aprile 1923: l’articolo verte principalmente sui risvolti morali della semplificazione dell’abbigliamento femminile e sui fini patriottici di una simile operazione, in linea con gli inviti all’austerità diramati dalle autorità.

Gli ultimi referendum

L’intenso ricorso al sondaggio che caratterizza i primi anni di attività scema negli ultimi anni della direzione di Steno: nel 1924 l’unica inchiesta promossa sarà “La donna e i libri” che, dichiaratamente, vuole «essere un indice del livello e dei gusti intellettuali della donna italiana», ((La donna e i libri, anno VI, n. 31, 31 luglio 1924.)) indagandone le letture e paragonando le sue abitudini a quelle delle donne straniere. Nel 1925 non verrà bandito nessun referendum.

La pratica verrà ripresa nel 1926, con “Le donne nell’Accademia di Italia” (gennaio-marzo 1926). Il referendum replica un’iniziativa del quotidiano fascista romano «Il Tevere», che aveva chiesto a delle scrittrici di esprimersi sull’accesso alle donne all’Accademia di Italia di prossima istituzione. «La Chiosa» rilancia la questione a lettrici e lettori, chiedendo loro non solo la propria opinione, ma, se favorevoli, di indicare le scrittrici che dovrebbero poter entrare. Pochi i contributi effettivamente pubblicati nella rivista anche se, nel commentare i risultati, Adriano Grande parlerà di più di un centinaio di risposte. La maggior parte dei e delle partecipanti si esprime favorevolmente e, tra le donne da ammettersi, i nomi più citati sono quelli di Grazia Deledda e Ada Negri.

L’ultimo referendum de «La Chiosa», “La signorina d’oggi… e quella di cinquant’anni fa” sarà lanciato nell’ottobre del 1927, ottenendo uno scarsissimo interesse tra i lettori e le lettrici.