Vie aperte e vie da aprirsi: le donne e il lavoro


Fin dall’inizio delle sue pubblicazioni, «La Chiosa» prende una decisa posizione sul tema del lavoro femminile. La rivista condivide naturalmente le opinioni di Flavia Steno in materia: «[…] Noi riducemmo sempre la questione femminista a una questione di indipendenza economica femminile e, per la donna, reclamammo sempre un solo diritto: quello del lavoro – persuase che, da questo, tutti gli altri sarebbero sgorgati come conseguenze ineluttabili di quella conquista posta a premessa». ((La Chiosa, Il perché de La Chiosa, «La Chiosa», anno I, n. 1, 20 novembre 1919, p. 1.))

Malgrado l’emanazione della legge Sacchi nel luglio del 1919, nel dopoguerra cominciano tempi duri per le lavoratrici. La grave crisi economica e l’alto tasso di disoccupazione provocano una dura rappresaglia contro le lavoratrici, accusate di occupare, senza averne reale bisogno o capacità, dei posti di lavoro destinati agli uomini. Il problema del crescente impoverimento della popolazione italiana e delle scarse possibilità di impiego non fu quindi ricondotto a delle ragioni socio-politiche, ma letto in termini di genere, come una ‘guerra tra i sessi’. ((Sul tema si veda Mariolina Graziosi, Gender Struggle and the Social Manipulation and Ideological Use of Gender Identity in the Interwar Years, in Mothers of Invention. Women, Italian Fascism, and Culture, a c. di Robin Pickering-Iazzi, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1995, pp. 26-51.)) È Elsa Goss a commentare, nel numero inaugurale de «La Chiosa», le proteste dei veterani contro il lavoro femminile: «Licenziate pure la donna dagli uffici, per offrirne il posto all’eroe che ritorna: ma allora licenziatene anche tutti gli imboscati. Io accetterei incondizionatamente la riduzione del personale femminile da questo punto di vista: nel caso attuale ammetto il fatto, ma contesto il principio, perché comprendo benissimo che non si tratta solo di affermare il privilegio del combattente sul placido borghese, del mutilato sul cittadino illeso, bensì quello dell’uomo sulla donna nella gara economica e nella lotta per la vita». ((Elsa Goss, Una campagna antipatica, «La Chiosa», anno I, n. 1, 20 novembre 1919, p. 3.)). Goss apre una polemica: «L’articolo –, avverte la redazione – ci ha procurato parecchie lettere più o meno cortesi e più o meno sensate ma tutte anonime, il che è deplorevole». ((Anonimo e Elsa Goss, A proposito di una campagna antipatica, «La Chiosa», anno I, n. 2, 27 novembre 1919, p. 3.)) La giornalista, nell’articolo che segue, risponde punto per punto al suo ‘contraddittore ignoto’: ribadendo come, inquadrando il problema della disoccupazione in termini di genere, se ne dia una lettura distorta, ((«[…] nel caso pratico licenzierei dieci signorine e venti imboscati per far posto ad un vero combattente, ma non licenzierei neppure una signorina per dieci borghesi qualsiasi e neppure per dieci soldati che abbiano difesa l’Italia al fronte di Saluzzo o di Bassano», ivi.)). Goss ritorna inoltre sulla differenza degli stipendi tra uomini e donne, ingiustamente considerata una forma di concorrenza sleale, ((«Io direi, invece, viceversa: e cioè che l’uomo avrebbe potuto legittimamente protestare contro una concorrenza sulla base del minor prezzo rappresentante un vero e proprio krumiraggio femminile, ma che egli non ha più nessuna ragione per farlo adesso e per contestare alle lavoratrici il diritto di mangiare. Ma l’uomo non ragiona così: egli permetterebbe tutt’al più alla sua compagna l’esercizio delle professioni più umili; quelle che egli sdegna ma che pure debbono essere esercitate da qualcuno, e dalle quali non si ricavano né lucro eccessivo, né grandi soddisfazioni: egli preferirebbe che ella avesse sempre bisogno di lui e del suo denaro, per poterla comprare quando gli piace e per poterla disprezzare quando non gli piace più», ivi.)) e sulla compatibilità tra attività extradomestiche e ruoli familiari. ((«Non c’è pericolo [che il lavoro allontani la donna dalla famiglia]! […] Non mai come oggi la caccia al marito è stata affannosa, infaticabile, frenetica: voi stessi lo rilevate con meraviglia, con disprezzo, con dolore, e mentre da un lato vi ribellate con ogni vostra possa per non lasciarvi… monopolizzare… dall’altra trovate intollerabile l’idea che una donna possa fare a meno di voi – che, propugnando questa indipendenza economica che la sottrae all’obbligo del mercato legale, noi non pensiamo affatto ad allontanarla dal matrimonio, il che sarebbe inutile, immorale ed idiota, ma vorremmo soltanto, nel matrimonio, salvare l’assoluta dignità dell’amore…», ivi.))

Anche Lauretta Rensi, nello stesso numero, dice la sua, proponendo un’immagine tutto sommato più tradizionale della femminilità: «Nel nuovo campo di lavoro creato dalla società nuova, la donna deve afferrare tutto il lavoro compatibile con le sue forze fisiche (inferiori a quelle dell’uomo», con la sua capacità mentale, con le sue speciali abitudini, e, finalmente, con la maternità». ((Lauretta Rensi, Lavoro femminile, «La Chiosa», anno I, n. 2, 27 novembre 1919, p. 3.)) Invece di contestare a priori il lavoro delle donne, continua Rensi, che è una conseguenza necessaria del ‘tramonto della massaia’ e dell’evoluzione della vita sociale, bisognerebbe individuare lavori adatti ai due sessi perché, «anziché creare antagonismi artificiosi tra uomini e donne» si dovrebbe «far convergere il loro lavoro verso il loro bene comune». ((ivi.))

«La Chiosa» riserva particolare attenzione alle richieste dei reduci di licenziare le donne dai posti di lavori assunti per motivi bellici. Nel luglio del 1921 Steno, nei panni de La Lanterna, rivolge delle Parole chiare agli ex combattenti che avevano occupato gli uffici di alcune ditte private liguri per imporre l’allontanamento delle impiegate: «Stabilito – e nessuno vorrà contestarlo, che il diritto di saziare la fame è identico nell’uomo e nella donna, quando il lavoro o l’impiego rappresentino per quest’ultima la sola autentica condizione di sostentamento, l’uomo – ex combattente o no – non può più vantare alcuna priorità o privilegio a occupare il posto che ella occupa e ad assolvere il lavoro che ella assolve». ((La Lanterna, Parole chiare agli ex combattenti, anno III, n. 29, 21 luglio 1921, p. 2.))

«La Chiosa» lavora su due fronti: da un lato, invita le donne ad associarsi per difendere il proprio diritto al lavoro: «Signorine impiegate, il tempo di difendervi platonicamente, a base di schermaglie dialettiche, è superato e finito. Poiché gli avversari vostri non vogliono comprendere è inutile proseguiate a gridare le vostre legittime, chiare e sacrosante ragioni. Guardate in faccia quella realtà che oggi si chiama: necessità superiore di difesa. E organizzatevi». ((Flavia Steno, Chiare parole alle impiegate, «La Chiosa», anno IV, n. 29, 20 luglio 1922, p. 2)) Dall’altro, pur non considerandole illegittime, critica e ridimensiona le rivendicazioni degli ex combattenti, contestandone sia i bersagli sia i simboli: «È impressionismo macabro la gamba di legno contro la calza di seta che trionfa sulle colonne di certi giornali; e magari la divagazione pseudo sentimentale dell’impiegato di ruolo (sarà poi stato al fronte, costui, o se ne è rimasto fra le sue scartoffie come indispensabile e insostituibile?) che addita alle signorine il cieco di guerra il quale ha il DIRITTO di occupare il loro posto. Se e come e quando un cieco possa sostituire una donna al lavoro che pure ella compie resta un mistero». ((Ester Lombardo, Le pure insegne di una triste guerra. Mutilati e Signorine, anno III, n. 17, 28 aprile 1921, p. 4.)) Ancora una volta, nella rivista si sottolinea come far rientrare la questione del lavoro femminile entro la dimensione di una ‘guerra tra i sessi’ impedisca di vedere le vere ragioni di malessere come, nel caso dell’articolo di Ester Lombardo, le basse pensioni di guerra assegnate dallo Stato ai veterani. Invece, «Assistiamo oggi – dopo tutti i vini levati durante la guerra al contributo femminile in tutte le forme di attività civile – assistiamo oggi a un ritorno torbido di uno stato d’animo che credevamo superato per sempre. I mutilati non c’entrano. Essi in fondo non fanno che prestare la comoda insegna della loro “gamba di legno” ad un movimento di sesso, rivolto contro il nostro diritto al lavoro, il nostro diritto ad una vita indipendente da quelli che sono i mezzi e guadagni dell’uomo, veramente nostra, costruita con il nostro sforzo, alimentata dall’opera nostra». ((ivi.)) Eppure, rincara Donna Paola, c’era da aspettarselo: « Quando io esprimevo il parere che le donne incrociassero le braccia, io aggiungevo: – opere di pietà e di misericordia, finché volete, c’è un mondo da dare, qui, che può essere dato e può restare senza incomodo o danneggiamento di alcuno, in mano vostra. Ma lavori, ma incarichi, ma impieghi, tolti agli uomini che poi dovrete restituire, mai e poi mai! Gli uomini vi chiamano oggi a gran voce, vi implorano salvatrici, vi promettono mari e monti perché hanno bisogno di voi…  ma quando li avrete serviti, quando vi avranno spremute come limoni, vi butteranno via come buccia, come buccia vi calpesteranno sotto i piedi! […] E il dramma – davvero troppo agevolmente vaticinato – è venuto adesso». ((Donna Paola, Il dramma e la farsa, «La Chiosa», anno V, n. 11, 15 marzo 1923, p. 1.))

Discutere il tema dell’occupazione femminile, ne «La Chiosa» come altrove, significa domandarsi se esistano e quali siano le professioni ‘adatte’ alle donne e quali le ripercussioni dell’impiego femminile sull’ambito familiare. Per la redazione del settimanale è chiaro che, nella società degli anni 20, le donne non possono più attendere solo alla sfera domestica, ma devono contribuire anche economicamente al ménage. Allo stesso tempo, però, diverse delle giornaliste, Willy Dias e Flavia Steno incluse, sono inclini a rappresentare questa necessità come imposta alle donne: «Credete veramente che tutta la masse delle piccole impiegate che sciamano alle dodici dai diversi uffici, povere leggiadre api laboriose, non preferirebbero restarsene a casa, spolverare un po’, agucchiare un po’, per poi uscirsene, nel meriggio a godere il sole […]?». ((Willy Dias, Donne nuove o circostanze nuove?, «La Chiosa», anno II, n. 7, 12 febbraio 1920, p. 3.)) Le donne e i loro desideri, insomma, non sono cambiati, anche se le mutate condizioni sociali comportano un diverso approccio al matrimonio e all’indipendenza, però: «rimettetela [la donna] nel suo antico dominio di donnina di casa e di mammina, e queste circostanze non avranno servito che a farle adempiere con maggior gioia e maggiore dignità i suoi doveri». ((ivi.))  

Eppure, a competere con questa visione rassicurante della femminilità, intervengono le numerosissime carriere che vengono rappresentate ne «La Chiosa» come accessibili alle donne. La rubrica ‘L’affermazione femminile’ riporta notizie (soprattutto) dal mondo occidentale circa le professioni esercitate dalle donne: dall’avvocatura al notariato, fino all’imprenditoria e all’aviazione. Dei vari lavori non si parla in modo astratto, ma vengono presentati degli ‘esempi viventi: delle 1786 donne menzionate dalla rivista, 189 sono ricordate perché svolgevano una qualche professione ((In questo numero non rientrano le donne occupate in ambiti culturali (come le bibliotecarie, le editrici o le giornaliste) né quelle che lavoravano in ambiti istituzionali (come le ministre o le ambasciatrici).)) e, tra queste, la stragrande maggioranza si dedica alla medicina (46) o all’infermieristica (19), e all’insegnamento (35).

In questo modo, «La Chiosa» dà una visione complessa (e non sempre coerente) della femminilità, rappresentando la sfera domestica e quella lavorativa non in competizione l’una con l’altra, ma come parti integranti dell’identità femminile.