Introduzione alla VI,10

 

“Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell’agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser quegli che arrostirono san Lorenzo.”

L’ultima novella della sesta giornata, raccontata da Dioneo, è tra le più famose del Boccaccio. Protagonista è un predicatore dell’ordine di sant’Antonio, Frate Cipolla. Ma accanto, quasi a duplicarne la comicità, il Boccaccio gli pone un aiuto, un discepolo: Guccio Balena (detto anche Imbratta o Porco). Piccolo e rosso di pelo Frate Cipolla; grosso, nero e barbuto il fante: due campioni di truffa e di burla. Ma Guccio non ha preso gli ordini: è un Frate Cipolla rimasto allo stato grezzo, che invano scimmieggia il maestro, e sa combinargli solo dei guai a causa del suo debole per la serva della locanda. Nasce qui un tipo di comicità gemellare, che prelude a quella di Morgante e Margutte, i famosi giganti di Luigi Pulci. Sarà il genio di questo poeta fiorentino del Quattrocento a cavarne quel che Croce ha definito un vero e proprio romanzo picaresco. Or narrandoci la prima di queste avventure, Boccaccio s’ispira alla vita reale: è qui la sua classicità, la sua grandezza.

            Disteso e riposato è il ritmo di questa novella (“Né vi dovrà esser grave, perché io per ben dire la novella compiuta, alquanto in parlar mi distenda”, Dec. VI, 10, righe 4-6). Il Boccaccio entra nel racconto ad assaporarne tutti i particolari, e a compiacersi delle parole di Frate Cipolla, facendoci rivivere nella sua intimità il dono oratorio che sciala il personaggio fino ad un carnevalesco capriccio verbale. Anche il ritratto di Guccio è ricavato indirettamente e messo in bocca a Cipolla, che lo celebra ispirato sino a cantarne le sue nove qualità: egli è “tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubbidiente e maldicente; trascutato, smemorato e scostumato” (Dec. VI, 10, righe 19-21). Alla quale rima si aggiunge poi il commento in prosa perché la burlesca lauda sia compiuta. Da questa tecnica narrativa, che avrà illustri continuatori in Pulci e Rabelais, il Boccaccio sa trarre partito con un crescendo inventivo, da sbalordire. Giullare non di Dio ma della sua stessa improntitudine, quando Frate Cipolla s’imbarca, il corso della sua eloquenza è imprevedibile. Tutta la sua maliziosa parola può scommettere contro l’ingenuità e l’ignoranza dei suoi ascoltatori. Una balordaggine di Guccio, un tiro mancino di qualche amico gli offre anzi il destro di superare se stesso cimentandosi nelle più rischiose mistificazioni. Se nella cassetta delle pretese reliquie al posto delle penne di pappagallo gli hanno messo dei carboni, poco male: allungherà la broda della predica e spiegherà che sono i carboni su cui fu arrostito San Lorenzo. E con la estemporanea reliquia tingerà dei bei crocioni addosso a tutti i devoti certaldesi: epilogo di una grandiosa fantasia comica, che assurge ai vertici dell’allegria carnevalesca.

            Intorno al Frate mistificatore il Boccaccio abilmente crea un alone di simpatia. Ma pur obliandosi buffonescamente nelle sue buffonerie dello spettacoloso personaggio, non v’è dubbio sui risvolti impliciti di un prolungato e raffinato divertimento satirico. Seguirlo in tutte le risorse della gratuità e ambiguità furbesche, inventate nel corso della predica, non è agevole; né sempre i commentatori sono riusciti a penetrare nelle pieghe dei doppi sensi (una volta anche scurrili, come quando spaccia per libri e le “piagge di Monte Morello in volgare” e i “capitoli del Caprezio”, Dec. VI,10, righe 47s.).(MUSCETTA 1972, p.253-254)