Giovanni Boccaccio: Decameron (novella VI, 9). Lettura di Marco Veglia Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprapreso l'aveano. Sentendo la reina che Emilia della sua novella s'era diliberata e che a altro non restava dir che a lei, se non a colui che per privilegio aveva il dir da sezzo, così a dir cominciò: - Quantunque, leggiadre donne, oggi mi sieno da voi state tolte da due in sù delle novelle delle quali io m'avea pensato di doverne una dire, nondimeno me ne pure è una rimasa da raccontare, nella conclusion della quale si contiene un sì fatto motto, che forse non ci se n'è alcuno di tanto sentimento contato. Dovete adunque sapere che ne'tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n'è rimasa, mercé della avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l'ha discacciate. Tralle quali n'era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportare potessono acconciamente le spese, e oggi l'uno, doman l'altro, e così per ordine tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de' cittadini: e similmente si vestivano insieme almeno una volta l'anno, e insieme i dì più notabili cavalcavano per la città e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d'altro fosse venuta nella città. Tralle quali brigate n'era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto e' compagni s'erano molto ingegnato di tirare Guido di messer Cavalcante de' Cavalcanti, e non senza cagione: per ciò che, oltre a quello che egli fu un de'míglíor loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale (delle quali cose poco la brigata curava), si fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sapeva onorare cui nell'animo gli capeva che il valesse. Ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d'averlo, e credeva egli co' suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta speculando molto abstratto dagli uomini divenia; e per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tralla gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d'Orto San Michele e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, e egli essendo tralle colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, vedendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: "Andiamo a dargli briga"; e spronati i cavalli, a guisa d'uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra e cominciarongli a dire: "Guido, tu rifiuti d'esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?" A quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: "Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace"; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, si come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato dall'altra parte, e sviluppatosi da loro se n'andò. Costoro rimaser tutti guatando l'un l'altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a fare più che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun di loro. Alli quali messer Betto rivolto, disse: "Gli smemorati siete voi, se voi non l'avete inteso: egli ci ha onestamente e in poche parole detto la maggior villania del mondo, per ciò che, se voi riguarderete bene, queste arche sono le case de' morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che son nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non letterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra". Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi, né mai più gli diedero briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere. 1 - Fra le "geniali forzature" di Italo Calvino, pronunciate con bello stile nella prima delle sue posturne Lezioni americane (così il Pasquini), vi è certo quella di aver suggeritoper il Cavalcanti un'immagine suggestiva (presa dal Boccaccio di questa novella) , che subito si è imposta ai lettori, ma sotto una luce nuova e diversa rispetto a quella che le era consueta. Si tratta dell'icona della "leggerezza" intesa quale dominio morale del mondo e della sorte che nella Classicità, non meno che nel Medioevo, poté presto godere di larga fortuna. Ebbene, il merito di Calvino fu quello di aver mostrato che la "leggerezza" di numerosi testi e personaggi letterati, come del Cavalcanti del Decameron, potrebbe non essere semplice agilità (ma Benvenuto da Imola era assai chiaro: "Et continuo evolavit a facie eorum, quia erat agillimus ut capreolus"); suo errore fu quello, invece, di estendere quel riconoscimento alla figura storica e alla poesia di Guido, segnata con accenti accorati dalla più dolorosa "pesanza". Fin d'ora, l'idea che può avanzarsi è che il significato di semplice "prestezza" che fl vocabolo "leggerissimo" prende nel contesto della novella, per via di metafora si accentui, in relazione con altri luoghi del Decameron, a tal punto da illuminare e quasi in sé riassumere il significato dell'opera intera: nella quale, in effetti, Cavalcanti si troverà insignito d'una qualità contraria a quella tipica nei suoi spiriti "gravati d'angosciosa debolezza". La stima che il Boccaccio dové nutrire per Guido si accentrava, nel Decameron, piuttosto che sugli aspetti "dolenti" e "sbigottiti" del primo amico di Dante, sulla scienza di quel poeta, da tutti riconosciuto come eccellente "filosofo naturale". Guido poi, ricordato già nelle chiose al Teseida (VII 50, 1) in compagnia del suo antico commentatore, il celebre medico Dino del Garbo, spiccava davanti al Boccaccio per l'auorità che godeva come pensatore laico, che teneva alquanto della scuola di Epicuro (all'insegnamento di "pator Epy" si riferirà il Boccaccio, come a propria filosofia nella quindicesima egloga del Buccolicum carmen, la Phylostropos). E giusto a un "Dinus florentinus", che è forse il medico sunnominato, il Petrarca dei Rerum memorandarum (II60) riferirà un vivace aneddoto, simile a quello della VI 9. Ancora questa, in un altro anello della sua immediata fortuna, finirà nel Comentum di Benvenuto da Imola alla Commedia dantesca: non però nell'esposizione del X canto dell'Inferno bensì dell'XI del Purgatorio, dove Guido è chiamato in causa da Dante nel biasimo di un'arte troppo legata ai beni e alle bellezze del mondo. Bellezze e beni che, appunto, il Boccaccio dipinge come sfondo del suo racconto: Dovete adunque sapere che ne' tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n'è rimasa, mercé della avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l'ha discacciate. Tralle quali n'era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportare potessono acconciamente le spese, e oggi l'uno, doman l'altro, e così per ordine tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de' cittadini: e similmente si vestivano insieme almeno una volta l'anno, e insieme i dì più notabili cavalcavano per la città e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d'altro fosse venuta nella città. [VI 9, 4 -61] Il nesso che si ravvisa tra la personalità di Guido Cavalcanti e l'intelligenza che egli ebbe della vita (additata culturalmente nell'epicureismo: "Quid tandem, si vita placet?", secondo la Phylostropos), è il tratto che meglio distingue la VI 9 dai racconti affini, come l'aneddoto petrarchesco dei Rerum memorandarum o la versione che diede Benvenuto della novella boccacciana. Così, per esempio, se il Petrarca si limita al caso cittadino e non lo inquadra affatto in un contesto determinato, del pari non si ha menzione alcuna delle abitudini mondane di Guido, né di una intera civiltà, nelle chiose del Comentum (lo sfondo " terreno" è assegnato invece al canto purgatoriale): Et hic nota, quod iste Guido, sicut et Dantes, fuit homo multum speculativus, tardiloquus, faciens subtilia et subita scommata. Accidit autem, quod semel Guido cogitabundus deambulabat solus juxta sanctum Johannem in Florentia, cum quidam miles florentinus nomine Bettus de Burneleschis superveniens cum aliis sociis clamavit super eum, dicens: Ecce. Guido, cum tantum cogitaveris, quod inveneris Deum non esse, quid feceris? Cui Guido praesto respondit: Domini, potestis dicere juxta domum vestram quidquid placet. Et continuo evolavit a facie eorum, quia erat agillimus ut capreolus. [E qui nota che questo Guido, come Dante, fu uomo assai incline alla meditazione, ponderato nel parlare, capace di acuti e improvvisi motti. Allora, accadde che una volta Guido, cogitabondo, camminava tutto solo nei pressi di San Giovanni in Firenze, quando un certo cavaliere fiorentino chiamato Betto Brunelleschi, con altri suoi compagni, giunse lì all'improvviso e gli disse: Ecco, Guido, quando tu avrai tanto meditato da mostrare che Dio non esiste, che avrai ottenuto? Al quale Guido subito rispose: Signori, potete dire a casa vostra ciò che vi piace. E immediatamente sparì dalla loro vista, poiché era agilissimo come un capretto.] Ma certo, colui che meglio sottolinea la profonda diversità che corre tra Guido e altri giovani fiorentini che si raccoglievano in brigate (forse più "epicuri" di lui, ma con maggiore insipienza), è Betto Brurielleschi, che nella spiegazione del motto cavalcantiano introduce alla convinzione morale sottesa alla battuta pungente, non diversa per significato da quella consegnata - Antropos agramatos fyton acarpon - all'autografo Riccardiano 1232 del Buccolicum carmen, per la quale "l'uomo illetterato" non è altro che "pianta senza frutto". Va riascoltata la rampogna di Betto ai suoi compagni: Gli smemorati siete voi, se voi non l'avete inteso: egli ci ha onestamente e in poche parole detta la maggiore villania del mondo, per ciò che, se voi riguarderete bene, queste arche sono le case de'morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che son nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non letterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra. [VI 9, 14] La perfezione dell'intelletto, insieme con la capacità di controllare, nella grazia di un motto, gli imprevisti della Fortuna; impreziosita pure da una certa leggiadria che trova nell'agilità del corpo il corrispettivo quasi della virtù morale, disegnano per il Guido boccacciano un'immagine indimenticabile, tersa nella sua levità. Ne accertiamo la verità intima entrando, in iscorcio, nell'accesso polemico alla Quarta giornata, dove in un contesto "amoroso", nel quale si dibatte la giustezza o meno per gli uomini " già vecchi" di amare e onorare le giovani donne, il Cavalcanti è chiamato sul proscenio in compagnia dei "vecchissimi" Cino da Pistoia e Dante Alighieri. Qui, l'immagine di sé che il Boccaccio affida ai lettori è scopertamente leggera": [ ... ] io non veggo che di me altro possa avvenire che quello che della minuta polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la muove, o se la muove la porta in alto e spesse volte sopra le teste degli uomini, sopra le corone dei re e degl'imperadori, e talvolta sopra gli alti palagi e sopra le eccelse torri la lascia; delle quali se ella cade, più giù andar non può che il luogo onde levata fu. [IV, Introd., 40] Senonché una qualità simile, a dispetto della duplice occorrenza, potrebbe una volta ancora suonare casuale, se non fosse perché nella chiusa dell'opera il Boccaccio, costretto nuovamente a difendersi dalle accuse dei "morditori", sull'esempio di quanto accaduto nel vestibolo della Quarta giornata, la prende e la pone a sigillo dell'intero Decameron. La situazione è giustamente famosa: alle donne che ritengono sconveniente un siffatto libro per un uomo non più giovane ormai come il Boccaccio, egli risponde tranquillamente che le cose, in effetti, stanno diversamente: Né dubito punto che non sien di quelle ancor che diranno le cose dette esser troppe, piene e di motti e di ciance, e mal convenirsi a un uomo pesato e grave aver così fattamente scritto. A queste son io tenuto di render grazie e rendo, per ciò che da buon zelo movendosi tenere sono della mia fama. Ma così alla loro opposizion vo' rispondere. lo confesso di esser pesato e molte volte de' miei dì essere stato; e per ciò, parlando a quelle che pesato non m'hanno, affermo che io non son grave, anzi son io sì lieve, che io sto a galla nell'acqua. [Concl. d. a., 22-23] Consimile icona di leggerezza ribadisce che tale virtù, per il Boccaccio e non per Guido, illumina il centro dell'opera e il suo intento principale. Del tutto affine è la scena conclusiva del Corbaccio: [ ... ] mi parve che non so che cosa grave e ponderosa molto da dosso mi si levasse e me, al quale inmobile e inpedito prima essere parea, senza sapere di che, fe' incontanente parere leggerissimo e spedito e avere licenzia di potere andare. [Corb., 401] L'agilità che distingueva il balzo "storico" di Cavalcanti, è inclusa ora meglio nel termine "spedito" che in "leggerissimo": quel salto, allora, si tramuta in simbolo della visione boccacciana perché inserito in una catena di relazioni precise. 2. Come è risaputo, quel che premeva al Boccaccio era l'esito di un riscatto da compiere - così egli diceva per bocca di Pampinea, che ne aveva sancito l'avvio - "senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione" (I, Introd, 65): questa, era la risposta morale a una condizione "grave" di "inbestiamento" che si presentava allora quale morte e malattia, quale "pestilenziosa infermità". L'intenzione del Boccaccio è così di far seguire al "grave e noioso principio" un "alleggiamento" che s'accordi all' analogo offertogli dagli amici quando si trovava afflitto per le pene d'amore (Introd., 2 e Proemio, 7). Se dunque la rinascita dal grave al leggero pervade con pacata esattezza ogni anfratto dell'opera, la leggerezza diviene per il Boccaccio l'atto, lo stile, la forma o il pensiero nel quale s'inverano le forze proprie dell'uomo e della Natura, e nella cui letizia sempre arguta e cordiale il dolore dell'esordio dedicato alla Morte Nera è non già cancellato ma temperato, reso compagno severo ma incancellabile (presupposto, anche, di riso e bonomia) della vita còlta nei suoi molteplici aspetti, una e indivisa. Il fatto curioso è che un Cavalcanti segnato, nelle sue rime, dalla continua presenza del dramma si fa a tal punto boccacciano da mutarsi in nume di vita e letteratura. E nella sua concentrata acutezza il "motto" di Guido (che piacque tanto a Elissa da farlo spiccare sugli altri già detti) si determina ancor meglio per il legame che lo avvince alla brigata del Decameron, retta e regolata su una ragione che naturalmente si esprime nella parola (onde il nome del libro, modellato sugli "esameroni" che commentavano il Genesi biblico), e in effetti ben diversa dalle altre associazioni di giovani descritte nell'introduzione (1, Introd., 20-25). Pare che nella giornata più breve del Decameron si trovino insomma i motivi caratteristici dell'opera, affermati di pari passo con l'accenno delle sue ragioni di fondo. Madonna Oretta (VI 1), a un cavaliere che non sapeva raccontare, né acconciare le parole con le esigenze del ritmo, lieta e arguta suggerisce che taccia. E se ripercorriamo le pecche del cavaliere, e le rovesciamo con il pensiero nel loro opposto, ricaviamo forse qualche notizia sull'arte del Boccaccio, dove il respiro nobile della frase deve unirsi con la vivacità, con i "sali" del discorso e una sicura scorrevolezza ("levis verborum concursus"): Messer lo cavaliere, al quale forse non stava meglio la spada allato che 'l novellar nella lingua, udito questo, cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé era bellissima, ma egli or tre or quatro e sei volte replicando una medesima parola e ora indietro tornando e talvolta dicendo: Io non dissi bene" e spesso ne' nomi errando, un per un altro ponendone, fieramente la guastava: senza che egli pessimamente, secondo le qualità delle persone e gli atti che accadevano, profereva. [VI 1, 91] Cisti fornaio (VI 2) viene a illustrare la dignità umana ed è per Boccaccio l' esempio, nella semplicità che lo distingue, di valori che non soggiacciano ai colpi di Natura e Fortuna. Vengono, poi, Nonna de' Pulci (VI 3), l'astuto Chichibio (VI 4), Michele Scalza e il sagace Fresco (VI 6 e VI 8), i quali tutti confermano con efficacia le mille varietà dell'intelligenza umana che si cimenta con i casi della vita. E famoso Giotto (VI 5, 5-8) si colloca invece sulla linea culturale di Cavalcanti, come già avveniva nell' XI canto del Purgatorio con la compagnia eletta di Oderisi e Franco Bolognese, di Cimabue e Guinizzelli: Giotto, ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de'cieli, che egli con lo stile e con la penna e col pennello non dipígnesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse [...]. E il rilievo culturale della sua opera viene accompagnato dalla lode della sua persona, umile a sufficienza da rifiutare, come leggiamo, ogni titolo onorifico: E per ciò, avendo egli quell'arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni, che più a dilettare gli occhi degl'ignoranti che a compiacer allo 'ntefletto de' savi dípignendo, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote; e tanto più, quanto con maggiore umiltà, maestro degli altri in ciò, vivendo quella acquistò, sempre rifiutando d'esser chiamato maestro. E qual titolo rifiutato da lui tanto più in lui risplendeva, quanto con maggior disidero da quegli che men sapevan di lui e da'suoi discepoli era cupidamente usurpato. Dunque la pittura, l'ingegno vivo di Giotto si stagliano per la loro "eccellenzia" su un retroterra di pittori e opere morte", oscure prove di un'arte sepulta secondo una contrapposizione che, nel suo valore dialettico, rimanda a quella cavalcantiana della VI 9. Cosi, pure, nello splendore giottesco risentiamo l'eco ravvicinata dell'esordio celeberrimo della novella di Cisti, dove è detto che Natura e Fortuna operano spesso, l'una "discretissima", l'altra con "mille occhi" avveduta ("come che gli sciocchi", che sono anche pittori e poeti imperiti, "lei cieca figurino") nel modo che segue: E così le due ministre del mondo spesso le loro cose più care nascondono sotto l'ombra dell'arti reputate più vili, acciò che di quelle alle necessità traendole più chiaro appaia il loro splendore. [VI 2, 6] Ma è notevole che Benvenuto abbia sentito affini i contesti, e abbia avvertito congeneri i problemi della VI 9 e di quel canto purgatoriale, perché suggerisce per tale via una diversità del Boccaccio leggero rispetto alla rappresentazione dantesca dei suoi personaggi ispiratori, alcuni dei quali (come Cino e Giotto stesso) risalenti alla cultura della Napoli angioina, dove appunto Boccaccio visse in giovinezza e cominciò a poetare. La differenza allora, cui solo può darsi lo spazio di un fuggevole cenno, sta nell'umiltà che è radice della levità boccacciana, di contro alla superbia di che si fa condanna nelle balze del Purgatorio. Boccaccio quindi, nell'atto stesso di dichiararsi discepolo di quella nobile "scola" purgatoriale ne corregge, o meglio ne sfuma, la vanità o superbia. 0 potremmo dire, meglio ancora, che presentendo il rischio eventuale di quella colpa, secondo l'esempio offertone nella Commedia, ne corregga alla radice la visione delle cose, con ciò assumendo una posizione autonoma non meno rispetto a Dante che ai personaggi da lui rammentati. Tanto è vero che l'immagine adottata nella Commedia (Purg. XI, 100- 102) per esprimere quel peccato: Non è il mondan romore altro ch'un fiato di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi, e muta nome perché muta lato, viene a essere quasi implicita nel passo dell'introduzione alla Quarta giomata, ancor più determinato poi, nella sua natura levis, dalla chiara assunzione non solo dello "spirante turbo" del III canto dell'Inferno ("come la rena quando turbo spira"), ma del riverbero naturale, visto il "cognome" del libro ("prencipe Galeotto" in dipendenza di "Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse"), del V canto dell'Inferno (vv. 73-75): I' cominciai: "Poeta, volontieri parlerei a quei due ch'nsieme vanno e paion sì al vento esser leggeri". Nel merito, più oltre non si dice. Altro magnanimo personaggio della Sesta giornata (per eminenza leggera"), che va a riconnettersi al filo ideale che s'è ora tracciato, è Madonna Filippa (VI 7) la quale, "con una pronta e piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare" (che la condannava perché adultera), con tale successo "che non solamente festa e riso porse agli uditori, ma sé de' lacci di vituperosa morte disviluppò (per incidenza rammentiamo che Guido, dopo aver replicato come sappiamo alla sollazzevole brigata, "sviluppatosi da loro se n'andò"). Per non dire poi di frate Cipolla (VI 10) che, quale controfigura burlesca dell'oratore Boccaccio, più d'ogni altro "attore" dell'opera conduce forse il lettore dinanzi al pregio del libro: il piacere di raccontare e di raccontarsi, con la freschezza della parola e dell'intelletto, in un mondo che pareva accantonare ogni traccia d'umanità. Così questa giornata, chiusa dalla pittura della Valle delle Donne e apertasi invece con il battibecco giocoso tra i servi Licisca e Tindaro, raffigura in sintesi e in sé racchiude la "tensione essenziale", o più semplicemente l'auspicio, l'intento morale, del Decameron. 3. Si accordano infine la struttura del Centonovelle e il suo significato "metaforico", poiché entrambe chiariscono il significato di un'opera che vuole essere un Logos laico e che pure, come quello biblico alluso nel significato del nome, vuole farsi "carne". L'architettura del Decameron è pensata come una vera orazione retorica, che si apre con il "proemio" e "introduce" poi il racconto (narratio), salvo interrompersi ai luoghi opportuni con il fine di oppugnare le tesi avverse (confutatio), riprese quindi nella conclusione (conclusio) come già nell'introduzione alla Quarta giornata. Ogni novella, del resto, è accompagnata da una breve didascalia che rimanda al titolo del libro (pure esso una didascalia) e altresì delle giornate narrative, è aperta da una rapida introduzione al racconto (nella VI 9 da "Quantunque, leggiadre donne" sino a "di tanto sentimento contato" : ivi, 3); è seguita dal racconto vero e proprio (da "Dovete adunque sapere" fino a "sottile e intendente cavaliere": VI 9, 4-15); è chiusa senza la giunta, al solito (ma non è una norma), di ulteriori commenti affidati semmai all'esordio della novella successiva. Questa "orazione" dove il macrocosmo dell'opera corrisponde appieno al microcosmo dei singoli racconti è unita, inestricabilmente, a una raffigurazione dell'opera stessa come uomo, provvisto al pari degli altri tutti di un nome e di un cognome: Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uornini. Il libro-uomo "contiene" dunque, oltre la brigata di giovani, "cento novelle " che, come l'opera tutta reca nella "fronte" (Introd., 2) la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata", cosi portano segnato il loro carattere (Concl. d. a., 19): [ ... ] elle, per non ingannare alcuna persona, tutte nella fronte portan segnato quello che esse dentro dal loro seno nascose tengono. L'afferrnazione della natura "umana" dell'opera e dei racconti, mentre ribadisce la concordanza fra l'architettura generale e le sue singole parti, sancisce nel medesimo tempo l'unità indivisibile della parola e della ragione, segni distintivi dell'uomo, nel Decameron. Forse nessuno mai, come il Boccaccio, aveva concepito con simile onestà una retorica che fosse "antropologia", che facesse dell'organizzazione formale del racconto l'atto stesso del suo ordine morale. Molte altre cose si potrebbero aggiungere che tuttavia condurrebbero lontano dal tema prescelto. Ma forse è bastevole aver notato l'addensarsi nella VI 9 di concetti, di parole, di forme e tradizioni davvero vitali per l'intelligenza del Decameron. E pertanto, a ben vedere, se l'errore di Calvino fu quello di attribuire a Guido Cavalcanti una virtù che fu solamente del suo cultore trecentesco "la sua gravità contiene il segreto della leggerezza"), nondimeno egli ci ha fatto "speculare", come tanto piaceva al primo amico di Dante, su un'immagine lieve che è forse il miglior emblema, al fine, dell'opera principe del Boccaccio. Testi di riferimento E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1946. Benvenuto da Imola, Comentum super Dantis Aldigherii Comaediam, a c. di J.-Ph. Lacaita, Barbera, Firenze 1887, 5 voll. G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Einaudì, Torino 1987. Id., Corbaccio, a c. di G. Padoan, in Tutte le opere di G. B., vol. V, t. II, A. Mondadori, Milano 1995. Id., Buccolicum carmen, a c. di G. Bemardi Perini, in op. cit., A. Mondadori, Milano 1995. L. Battaglia Ricci, Giovanni Boccaccio, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da E. Malato, Salerno Editrice, Roma 1995, vol. II, Il Trecento, pp. 727-877. G. Billanovich, Petrarca letterato. I. Lo scrittoio del Petrarca, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1947. F. Bruni, Boccaccio. L'invenzione della letteratura mezzana, il Mulino, Bologna 1990. I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio, Garzanti, Milano 1988. A. Mazza, L'inventario della 'parva libraria' e la biblioteca del Boccaccio, in "Italia Medioevale e Umanistica", IX (1966), pp. 1-74. E. Pasquini, Dal 'plazer'stilnovistico cortese a quello umanistico cristiano: storia di un verso-chiave sulla neve, in "Italianistica", XXI (1992),pp. 459-483. A. E. Quaglio, Scienza e mito nel Boccaccio, Liviana, Padova 1967. A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana dalla latinità medievale a Giovanni Boccacciò, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1943. G. Vellì, Seneca nel "Decameron", in "Giomale Storico della Letteratura Italiana", CLXVIII (1991), pp. 321-334. |