Struttura e codici narrativi Dopo una breve introduzione di Elissa, il racconto si apre con il nostalgico rimpianto delle "belle e laudevoli usanze" dei "tempi passati" , oramai soppiantate, sulla scia delle deprecazioni dantesche, dall'avarizia del presente (§4). Inizialmente si ripropone quindi un dato di costume, le "brigate" dei "gentili uomini" (§5) di Firenze, modello culturale che costituisce la base gnoseologica di un epicureismo del quale Guido è visto come il rappresentante più fulgido. Infatti Guido soddisfa pienamente i requisiti necessari dettati dal codice di comportamento cortese cui aderisce la brigata: "...Betto e'compagni s'erano molto ingegnati di tirare Guido di messer Cavalcante de'Cavalcanti, e non senza cagione: per ciò che, oltre a quello che egli fu un de' miglior loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale (delle quali cose poco la brigata curava), si fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sapeva onorare cui nell'animo gli capeva che il valesse" ( VI,9, §7-9). Ma in tale atmosfera comune, il ritratto manifesta di già una nota stonata agli occhi della brigata, un aspetto di cui i compagni di Betto poco si curano: la speculazione, il suo essere filosofo, lo isola dagli altri rendendolo sfuggente ad ogni invito (§8). Tale contrasto non incrina comunque l'attrazione della brigata per le qualità sociali e cortesi del Cavalcanti, e anzi, sarà proprio il suo carattere astratto ed elusivo a stimolare l'assalto sollazzevole. Baratto sottolinea che "la progressione del testo, nella presentazione di Guido, è calcolata con grande finezza, perché tende insieme a inserire il personaggio in un contesto ambientale e ad isolarlo, all'interno di esso, come problema non solubile per gli altri ( BARATTO, p. 337, 1970). Infatti Guido è dapprima presentato come oggetto del desiderio della brigata e lo scrittore, volendo spiegare le ragioni di ciò, apre una proposizione causale subito interrotta, però, da una secondaria ("...otre a quello che egli fu...") in cui si profila la figura di filosofo del Cavalcanti: il personaggio viene così fissato nella sua doppia personalità, l'una trascurata, l'altra (più corrispondente ai "gentili uomini") ammirata. Tale discrasia viene risolta dai compagni di messer Betto col fatto "che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini divenia" (§9), e questa semplice accettazione di una diversità sembra ripetere la voce dei cronisti fiorentini, corrispondere all'indiretta recensione dei luoghi comuni sulla figura del Cavalcanti. Allo stesso modo si procede con la voce sull'ateismo di Guido rinviata alla "gente volgare", distinta comunque dall'osservazione più rigorosa dello scrittore "che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri". Questa contrapposizione viene ad invalidare la condanna in absentia di Guido nel decimo dell'Inferno. I richiami danteschi verranno poi allusivamente capovolti anche nella metafora delle arche tra cui passeggia Cavalcanti e nel suo motto. Ma la lunga sequenza mira ad evidenziare il valore intellettuale del Cavalcanti, punta cioè, come su fatti oggettivi, sulle sue indubbie qualità di filosofo. Il personaggio viene così inserito a pieno diritto nel tessuto vitale della città, ma contemporaneamente, in virtù di quanto ha di originale, di irriduttibile, se ne isola ancor di più, è insieme una presenza incontestabile e un problema insolubile per i non filosofi. Questi sono i due temi dai quali prenderà corpo l'episodio seguente. L'appartarsi di Guido ubbidisce alle necessità meditative dell'uomo di studio, e Boccaccio, distinguendosi dalla "gente volgare", comprende tale solitudine. Il Boccaccio vuole qui rendere omaggio alle qualità intellettuali di Guido, al filosofo di Donna me prega ( di cui si farà copista). Tale fascinazione si fa palese nella seconda parte del racconto dove il contrasto si chiarisce come distinzione tra "uomini scienziati" e "uomini idioti e non litterati" (§14). "Un interesse intellettuale, non uno studio psicologico, sorregge queste pagine: e l'evidente contrapposizione tra il casuale, rumoroso assalto dei cavalieri e lo scatto mentale e fisico di Guido, che capovolge la sua iniziale condizione di inferiorità, ne è un'eloquente premessa rappresentativa" ( BARATTO, p. 339, 1970). Cavalcanti diventa, per così dire, simbolo della perfezione dell'intelletto capace di controllare, coll'acutezza di un motto (che Elissa apprezzò particolarmente e volle far risaltare sugli altri già detti), gli imprevisti della Fortuna. La valenza salvifica del motto si determina ancora meglio per il legame che lo avvince alla brigata del Decameron, retta e regolata su una ragione che si esprime nella parola. Perché come ci ricorda Picone, "il raccontare ha per i dieci novellatori proprio questo valore catartico, di unico mezzo rimasto in potere dell'uomo per purificare e affermare la propria elevata essenza razionale che rischia continuamente di essere attaccata e corrotta dalla forza della contingenza" ( PICONE, p. 439, 1987). La parola si impreziosisce qui della leggiadria del gesto cavalcantiano, una levità che richiama inevitabilmente quell'altro "alleggiamento" che Boccaccio sperava di recare alle donne scrivendo la sua opera (Proemio, §7). Chi non rimase insensibile all'immagine visuale evocata dal Boccaccio, fu proprio Italo Calvino nel primo capitolo delle Lezioni americane dedicato alla "leggerezza": "Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d'automobili arrugginite" (CALVINO, p. 13, 1988). La stima che il Boccaccio dové nutrire nei confronti di Guido si concentra, nel Decameron, piuttosto che sugli aspetti gravosi e dolenti del personaggio storico quale noi possiamo desumere dai suoi testi, sulla scienza di quel poeta, da tutti riconosciuto come eccellente "filosofo naturale". Così, il significato di semplice agilità che il vocabolo "leggerissimo" prende nel contesto della novella, "per via di metafora si accentua, in relazione con altri luoghi del Decameron , a tal punto da illuminare e quasi in sé riassumere il significato dell'opera intera: nella quale, in effetti, Cavalcanti si troverà insignito d'una qualità contraria a quella tipica nei suoi spiriti "gravati d'angosciosa debolezza"" (VEGLIA, p. 46, 1996). |