averroismo latino Cercando di affrontarla nel modo più semplice possibile, partiamo dalla discussa e comunque non scansabile questione dell'averroismo di Cavalcanti, anche se l'interpretazione della canzone, nell'insieme se non nei particolari, si è sufficientemente assestata e, occorre dire, funziona quasi altrettanto bene sia sullo sfondo di un aristotelismo scientifico e radicaleggiante che su quello assai prossimo di un evocato o suggerito averroismo. Tutto si gioca, infatti, tra il De anima aristotelico, che per alcuni riuscirebbe benissimo ad esaurire il discorso sulle coordinate filosofiche che reggono il discorso di Cavalcanti, e, dall'altra parte, la teoria dell'anima propria di Averroè, essenzialmente contenuta, per quanto ci riguarda, nel suo Commentarium magnum al De anima, noto nella traduzione latina di Michele Scoto (37). La questione è complicata dal fatto che le pagine dei De anima che ci interessano non sono chiarissime, e che assai ricca e diversificata è la tradizione esegetica che le riguarda: ma è anche vero che la canzone, se allude a impervie costruzioni filosofiche, non però le esige tutte per sé. Restiamo dunque allo scheletro di alcune affermazioni di Aristotele circa l'intelletto teoretico, che ha come proprio fine la conoscenza della verità (l'altro intelletto, quello pratico, orienta la volontà all'azione): tale intelletto possiede una dimensione attiva (intelletto produttivo), e una dimensione passiva (intelletto potenziale). Sia nell'una che nell'altra dimensione l'intelletto ha alcuni caratteri comuni: è separato dal corpo, è inalterabile, non è mescolato (vedi soprattutto De anima 1115, 430a 10 ss.). Ma l'intelletto produttivo, o attivo, è in qualche modo la nostra vera anima immortale, mentre l'intelletto potenziale o possibile, dipendendo nella sua attività dalle immagini sensibili, è corruttibile così come lo sono le sensazioni e le passioni che lo nutrono. Per Averroè, invece, tanto l'intelletto agente quanto quello possibile (o materiale o ilico) sono eterni, unici per tutta la specie umana e separati. L'uomo in proprio ha la sola e mortale anima sensitiva, luogo delle passioni che si sviluppano a partire dagli stimoli forniti dall'esperienza sensibile. Ma l'anima sensitiva dell'uomo, a differenza di quella degli animali, è pure caratterizzata da un'attività cogitativa e cioè da una produzione di immagini ricavate dalle esperienze sensibili che le permette di unirsi all'intelletto nell'attività dell'intendere, dato che quelle immagini contengono in potenza le forme intellegibili ("Fantasmata enim preambula sunt actioni intellectus", come scrive san Tommaso, De unitate intellectus IV 88). Tale attività scatta appunto ogni volta che si verifichi una sorta di continuazione (o, meno bene, coincidenza o contatto) dell'intelletto unico e separato con quelle forme, che passano così dalla potenza all'atto. In altre parole, l'intelletto continua nelle immagini dell'uomo, dal momento che sono anch'esse, come l'intelletto possibile, soggetto delle specie intellegibili. Come scrive De Libera: "la noetica rushdiana si fonda su questa tesi centrale: l'intelletto ilico non è originariamente unito all'uomo perché è attualizzato da forme non materiali: pertanto non si unisce ad esso che ulteriormente, dopo essere stato attualizzato per mezzo delle forme immaginarie e delle forme non materiali che sono intelligibili in sé - cosa che dà luogo a uno stato di pensiero che il Commentatore chiama intellectus in habitu" . Ciò comporta che l'uomo voglia (dato che è in suo potere farlo) attualizzare nell'immagine l'intelligibile che essa contiene, spogliandolo dell'elemento materiale in cui è immerso e astraendone la forma, e che lo faccia appunto aprendosi e favorendo in sé l'azione dell'intelletto separato che propriamente 'pensa' quelle forme. Scrive ancora De Libera: "Il pensiero appare nell'uomo mediante un prolungamento (continuatio) dell'attività intellettuale in esso: la metafora chiave della noetica di Ibn Rushd non è tanto l'idea di contatto o connessione [ ... ) quanto l'idea di continuità. Il Pensiero ha luogo senza tregua, ciascun uomo ne riceve qualcosa, di tanto in tanto. Comunque il pensiero non è mai solo: c'è sempre qualcuno disposto a riceverlo, cioè disposto a continuare in sé ciò che continua in esso. Ora, il Pensiero non smette di comprendere se stesso: l'intelletto ilico non è affetto dal fatto che talvolta è continuato nelle forme immaginarie presenti in un individuo, talvolta no, in assenza di tali forme; se lo consideriamo in maniera assoluta - cioè non tanto in rapporto ad un solo uomo, ma in rapporto alla specie umana nel suo insieme - non cessa di pensare (semper invenietur intelligens) proprio come l'intelletto agente. La presenza nell'anima umana di una forma immaginaria apre potenzialmente in essa lo spazio del pensabile puro, ed è questo che chiamiamo 'unione con l'intelletto possibile', ed essa ha luogo quando l'intelligibile astratto in esso si svela, per la loro continuità, nell'uomo unito all'intelletto possibile nell'operazione dell'intelletto agente" (38). Su un punto così delicato, per maggiore chiarezza, raddoppiamo le parole dello studioso moderno con quelle di san Tommaso, che riassume così la posizione di Averroè: "Averroè pone che quel principio del pensiero che si chiama intelletto possibile non è né anima né parte dell'anima se non in senso equivoco, ma è piuttosto una sostanza separata. E afferma che il pensiero di questa sostanza separata è il pensiero mio o di qualche altro quando l'intelletto possibile s'accoppia con me o con te per mezzo delle immagini che sono in me o in te. E sosteneva che ciò avvenisse così. La specie intelligibile ch'è una cosa sola con l'intelletto possibile, essendone la forma e l'atto, ha due soggetti: uno, sono le immagini stesse; l'altro è l'intelletto possibile. Così l'intelletto possibile continua in noi in virtù della sua forma con la mediazione delle immagini, ed è così che mentre l'intelletto possibile pensa, questo singolo uomo pensa" (39). San Tommaso naturalmente nega che questa copulatio di una stessa specie intelligibile che si trova contemporaneamente sia nell'intelletto possibile che nei fantasmata dell'anima possa spiegare come l'uomo pensi (si può dire tutt'al più che l'uomo, o meglio, le sue immagini 'sono pensate': "ita sequeretur quod homo non intelligeret, sed quod eius fantasmata intelligerentur ab intellectu possibili"), ed è per altro proprio questo il radicale punto d'arrivo dell'Anonimo Giele, il quale, rispondendo a Tommaso, sostiene appunto che homo non intelligit, sì che, come scrive A. De Libera: "Tel que le voit l'Anonyme, l'homme n'a véritablement en propre que les affects et les images d'un corps qui sent, imagine et souffre. La pensée qui nait en lui n'est pas de lui ni à lui. Elle vieni de l'extérieur. Elle le prend pour objet à travers ses images. En la rigueur des termes l'homme n'est pas le sujet de la pensée"(40). Ma accantoniamo per il momento queste parole, che suggeriscono più d'una affascinante ipotesi ermeneutica che investe la totalità dell'esperienza poetica di Cavalcanti, e vediamo invece se il povero schema appena tracciato è un'utile base per interpretare meglio alcuni aspetti della canzone. Il passo nodale, ove gli elementi più tecnicamente filosofici di Cavalcanti si mostrano in maniera esplicita, sia nella seconda stanza. Nei versi 21 ss. si dice che l'intelletto possibile, soggetto delle forme e cioè delle species intelligibiles, è inalterabile (né amore né le altre passioni hanno possanza su di lui), non mescolato (da qualitate non descende, ed è dunque pura sostanza immateriale), e perciò separato (la separazione è poi condizione della consideranza priva di risonanze emotive, ed è ribadita dall'esclusione di ogni simiglianza: nel caso, con largir, anche la lezione là gire, brevemente discussa a suo luogo, darebbe un senso affatto coerente). Così determinato, l'intelletto possibile non parrebbe allontanarsi da quello potenziale (dunàmei) di Aristotele, pur esso preposto a ricevere gli intelligibili quale loro appropriato soggetto, anche se resta incerta la natura di quella separatezza. Tuttavia nell'intelletto possibile di Guido c'è qualcosa di più: l'eternità (resplende in sé perpetual effetto) che Aristotele gli negava (De anima 1115, 430a 24 ss.), e che invece Averroè gli attribuiva, in stretta relazione con il fatto che anche la specie umana è eterna ("in respectu speciei semper intelligit hoc universale, nisi species humana deficiat omnino, quod est impossibile")(41) Su questa base, acquista particolare significato un tipo di considerazioni che la lettura dei versi porta subito alla luce. È infatti quanto meno sconcertante trovare proprio all'interno di una descrizione della fenomenologia dell'amore una così articolata dichiarazione della superiore imperturbabilità dell'intelletto, nei confronti del quale amore è impotente. Semmai, ci si sarebbe potuti aspettare l'esatto contrario, e cioè una rinnovata versione delle antiche e topiche e tutto sommato facili invettive contro amore quale fonte di follia, proprio perché esso prevarica e insomma ha possanza sopra di quello (buona parte delle rime di Guittone, per esempio, non dice altro). Il che è ovviamente vero, come Guido dirà appresso, nella dimensione tutta individuale dell'esperienza amorosa, la quale è caratterizzata da un volere oltre misura che oscura e si sostituisce alla ragione (verso 33: "la 'ntenzione per ragione vale", ecc.). Ma appunto: se individualmente amore ha possanza, eccome! sul singolo, al punto da poterne provocare la morte morale e fisica, dov'è mai che l'intelletto possibile può restare tale e quale, perfettamente dedito alla sua eterna funzione speculativa, se non nella dimensione extraindividuale nella quale lo colloca Averroè? L'altrimenti incongrua apparizione di un siffatto intelletto all'interno della canzone non può avere altro scopo che quello di dividere nella maniera più netta possibile la sfera delle passioni da quella intellettiva: e non c'è divisione più definitiva di quella che fa dell'intelletto qualcosa di separato rispetto all'anima sensibile individuale. Talmente separato che, per Cavalcanti, l'amore è certo descrivibile nel suo modo d'essere e nei suoi effetti, ma propriamente, in sé, non è conoscibile (in esso "forma non si vede": verso 65) e l'intelletto non può darne alcuna immagine adeguata, non può l'argir simiglianza" (verso 28). L'espressione è assai pregnante, se si ricorda che l'intelletto 'pensa' attualizzando le forme che sono nelle immagini, e, così facendo, si fa esso stesso identico al suo oggetto, come spiega a più riprese Aristotele, De anima 1117, 43 1 a 1-43 Ib 20: ma questo principio di identità o "simiglianza" che sta alla base di ogni conoscenza intellettuale è proprio ciò che, nel caso dell'amore, manca, perché amore è un 'accidente'che non dà alcuna immagine di sé (ecco dunque, come vedremo meglio, l'importanza della precisazione che amore non è oggetto della vista), attraverso la quale l'intelletto possa pensarne l'eventuale forma intellegibile (42). Alla luce di questa reciproca esclusione, di questa impossibilità di contatto tra la dimensione individuale dell'esperienza e quella dell'intelletto, mi appare significativa l'espressione usata al verso 32, ove si dice che l'amore, in quanto perfezione che sente, non tanto distrugge ogni capacità di giudizio, quanto "for di salute giudicar mantene", cioè impedisce che quella capacità insita nell'anima sensibile si congiunga a ciò che propriamente la 'salva', il che non pare poter essere altro che l'intelletto possibile considerato in chiave averroistica. 37. Stampato nella grande edizione dei Giunta prima nel 1550-52 e poi nel 1562 (Aristotelis De Anima libri tres cum Averrois Commentariis .... Venetiis, apud Junctas, 1562, ora nella ristampa anastatica di Minerva G. m. b. H., Frankurt ani Main 1962), è stato riedito in edizione critica da F. Stuart Crawford, Averrois Cordubensis Commentarium Magnum in Aristotelis De Anima libros, The Mediaeval Acad. of America, Cambridge-Philadelphia 1953. Per più conplete indicazioni si può ora vedere A. Illuminati 1996, pp. 100 ss., che stampa in traduzione italiana un'ampia parte del commento al libro terzo, pp. 127-169 ed altri importanti testi di Averroè. Così fa anche A. Badawi 1998, pp. 100- 123, che riporta nel testo latino tutto il lungo, decisivo passo del commento di Averroè a De anima III 4, 429a 21-24. Alle pagine di questi due studiosi si aggiungano quelle di G. Quadri 1997, in parit. il capitolo IV della seconda parte, L'entelechia razionale, pp. 333-358, e quelle, sopra citate, dell'introduzione di De Libera al De imitate intellectus contra averroistas di s. Tommaso, oltre che il capitolo dedicato ad Averroè in De Libera 1955, pp. 153-172. Anche se qui appena sfiorata, è importante l'opera dell'anonimo commentatore dei libri primo e secondo del De anima aristotelico noto come Anonimo Giele (dal nome del moderno editore: vedi M. Giele, E Van Steeenberghen. B. Bazàn, Trois commentaires anonymes sur le traité de l'âme d'Aristote. Publ. Univ. - Béatrice-Nauwalaerts, Louvain - Paris 1971 ), al quale ricorre in particolare la Corti. Rinvio infine alle note 29-3 1 e 40, per qualche altra integrazione a questa scarna bibliografia. e ricordo l'utile panorama offerto dagli studi raccolti in Averroismo 1979. 38. De Libera 1995, pp. 167-168. Ma si veda anche Illuminati 1996, pp. 58 ss. (in Averroè "La grande mossa strategica entro una filosofia così protetta verso l'esterno è la messa in campo dell'unicità ed eternità dell'intelletto potenziale o materiale al pari dell'agente [ ... ] La mossa strategica consiste invero nel sottrarre l'intelletto materiale alla corruttibilità e nell'oggettivare scienza e immortalità in un corpo collettivo sovraindividuale ma non trascendente", ecc.). 39. De unitate 62 (in De Libera 1997), ch'è opportuno citare anche nel testo latino: "... Averroys, ponens huismodi principium intelligendi quod dicitur intellectus possibilis non esse animam nec partem anime nisi equivoce, sed potius quod sit substantia quedam separata. dixit quod intelligere illius substantie separate est intelligere mei vel illius, in quantum intellectus ille possibilis copulatur mihi vel tibi per fantasmata que sunt in me et in te. Quod sic fieri dicebat: species enim intelligibilis que fit unum cum intellectu possibili, cum sit forma et actus eius, habet duo subiecta, unum ipsa fantasmata, aliud intellectum possibilem. Sic ergo intellectus possibilis continuatur nobiscum per formam suam mediantibus fantasmatibus; et sic dum intellectus possibilis intelligit, hic homo intelligit'. 40. De Libera 1997, p. 65: ma si veda tutta la sua introduzione al De unitate. 41. Sul punto, vedi Nardi 1949, pp. 113-114. 42. A intendere meglio questo discorso sulla "simiglianza", qui data per impossibile, occorre un bell'esempio in Dante, relativo al processo della conoscenza, nella canzone Le dolci rime , versi 52-53: "chi pinge figura, / se non può esser lei, non la può porre", così spiegati nel Convivio, IV 10, 11: "nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima tale quale la figura esser dee" (vedi Fenzi 1975, pp. 36-37 n. 51). |