Testo
Commento
  

12. "Et predicto igitur domino meo Paduano, quia et ipse per Dei gratiam non eget et ego nichil habeo dignum se, dimitto tabulam meam sive iconam beate Virginis Marie, operis Iotti pictoris egregii, que michi ab amico meo Michele Vannis de Florentia missa est, cuius pulcritudinem ignorantes non intelligunt, magistri autem artis stupent; hanc iconam ipsi domino meo lego, ut ipsa Virgo benedicta sibi sit propitia apud filium suum Iesum Cristum."

("Al sudetto mio signore di Padova, non avendo egli bisogno, per grazia di Dio, e niente altro io avendo che sia degno di lui, lascio un mio quadro, ossia un’immagine della beata Vergine Maria, opera del famoso pittore Giotto, mandatami dal mio amico Michele Vanni di Firenze, e la cui bellezza, non intesa da gente incompetente è, invece, oggetto di meraviglia da parte degli esperti: lascio appunto questa immagine al mio signore perché la stessa Vergine benedetta sia propizia a lui presso il figlio suo Gesù Cristo.")

(Testamentum, in "Opere latine di Francesco Petrarca", a c. di Antonietta Bufano, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1975, p.1348-1351.)

 

 Francesco Petrarca scrisse il suo testamento nel mese di aprile 1370 a Padova.

La sua grande stima per l’artista Giotto si manifesta nel fatto che egli non trova altra cosa degna del suo signore padovano, che un’immagine della Vergine Maria, dipinta da Giotto.

La constatazione di Petrarca, vale a dire che la gente incompetente non intende la bellezza dell’arte di Giotto, rammenta il giudizio del narratore Panfilo nella parte introduttiva della novella VI.5.