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17 Ad eundem [Guido Sette], posse deformium opera esse formosa "[...] De Phidia et Apelle nusquam lectum est fuisse formosos; operum tamen illus-trium alterius reliquie stant, alterius ad nos fama pervenit. Itaque, tot interlabentibus seculis, utriusque artificis preclarissimum vivit ingenium, varie licet pro varietate materie; vivacior enim sculptoris quam pictoris est opera; hinc est ut in libris Apellem, Phidiam in marmore videamus. [...] Atque ut a veteribus ad nova, ab externis ad nostra transgrediar, duos ego novi pictores egregios, nec formosos: Iottum, florentinum civem, cuius inter modernos fama ingens est, et Simonem senensem; novi et sculptores aliquot, sed minoris fame – eo enim in genere impar prorsus est nostra etas -; ceterum et hos vidi et, de quibus fortasse alius plura dicendi locus dabitur, opera singulorum ab auctoribus suis multum differentia longeque distantia.[...]" (L’opera delle persone deformi può essere ben formata Non si è mai letto che Fidia ed Apelle fossero belli; dell’uno rimangono tuttavia le reliquie dei suoi capolavori, dell’altro ci è giunta la fama. E così, a distanza di tanti secoli, rimane vivo l’eccezionale ingegno di questi artisti pur nella diversità che viene dalla diversità stessa della disciplina; più lunga è infatti la vita delle sculture rispetto a quella delle pitture, sì che noi leggiamo il nome di Apelle sui libri, mentre Fidia lo vediamo nel marmo. [...] Ma per passare ora dagli antichi ai contemporanei, dagli stranieri ai nostri, ti dirò d’aver conosciuto io stesso due pittori di grande talento, ma non belli: il fiorentino Giotto, la cui fama è oggi grandissima, e il senese Simone; ho anche conosciuto parecchi scultori, ma di fama minore (in questa disciplina la nostra età non regge il confronto con l’antica), e questo ho notato: la grandissima differenza che esiste tra loro [...] e le loro opere. (Francesco Petrarca, Le Familiari, a c. di Ugo Dotti, Urbino, Argalìa, 1974, V, 17, p.580-583.) |
Nel capitolo 17 delle sue lettere familiari, Francesco Petrarca tratta un tema centrale della novella VI.5, cioè il fatto curioso che la natura mette spesso "maravigliosi ingegni" sotto "turpidissime forme d’uomini". Secondo il Petrarca, questo fenomeno vale sia per gli artisti più famosi dell’antichità, Fidia e Apelle ("De Phidia et Apelle nusquam lectum est fuisse formosos"), sia per quelli moderni, cioè Giotto e Simone Martini. L’aspetto fisico apparentemente poco degno di lode di Giotto, messo in luce da Boccaccio nella novella VI.5, trova qui conferma: Petrarca, che sembra aver conosciuto personalmente Giotto, lo designa "di grande talento, ma non bell[o]".. Il fatto di porre Giotto, l’artista moderno, sul piano medesimo dei più celebri degli artisti antichi, Fidia e Apelle, equivale, evidentemente, ad un elogio grandissimo. Fidia, scultore ateniese, visse nella prima metà del quinto secolo a.C. Accanto al suo genio animatore si formarono varì allievi che divennero le personalità artistiche più elevate della seconda metà del V secolo. Fidia appare un genio universale. Conosce tutte le tecniche: si diletta in creazioni miniaturistiche e affronta opere colossali. Egli segnò per gli antichi stessi una vetta insuperata e nel suo nome si accentra il classicismo del tardo ellenismo. La sua intensa e alta lirica ha creato l’arte classica, fonda-mento di tutta l’arte europea. Apelle, pittore greco, vissuto nella seconda metà del quarto secolo a.C., fu artista alla corte di Alessandro Magno. Famoso per la grande vivacità e per l‘eccezionale realismo nella sua pittura, Apelle fu, secondo il concorde giudizio degli antichi, il più grande dei pittori greci. Purtroppo, nessuna delle sue opere si è conservata fino ad oggi. Anche Boccaccio, nel capitolo VI della sua Genealogia Deorum Gentilium, pone l’artista moderno sul piano medesimo di Apelle (vedi: INTRATESTUALITÀ > GIOTTO E BOCCACCIO). |