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Commento
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"[...] E Giotto in particolare fece migliori attitudini alle sue figure e mostrò qualque principio di dare una vivezza alle teste. [...] Egli diede principio agli affetti, che si conoscesse in parte il timore, la speranza, l’ira e lo amore [...]." (Le Vite, 1568, II, p.101)

"[...] sendo cresciuto Giotto in età di X anni, gli aveva Bondone dato in guardia alcune pecore del podere, le quali egli ogni giorno quando il un luogo e quando in un altro l’andava pasturando, e venutagli inclinazione da la natura dell’arte del disegno, spesso per le lastre, et in terra per la rena, disegnava del continuo per suo diletto alcuna cosa di naturale, o vero che gli venissi in fantasia. E così avenne che un giorno Cimabue, pittore celebratissimo, trasferendosi per alcune sue occorrenze da Fiorenza, dove egli era in gran pregio, trovò nella villa di Vespignano Giotto, il quale, in mentre che le sue pecore pascevano, aveva tolto una lastra piana e pulita e, con un sasso un poco apuntato, ritraeva una pecora di naturale, senza esserli insegnato modo nessuno altro che dallo estinto della natura. Per il che fermatosi Cimabue, e grandissimamente maravigliatosi, lo domandò se volesse star seco. Rispose il fanciullo che, se il padre suo ne fosse contento, ch’egli contentissimo ne sarebbe. Laonde domandatolo a Bondone con grandissima instanzia, egli di singular grazia glielo concesse. Et insieme a Fiorenza inviatisi, non solo in poco tempo pareggiò il fanciullo la maniera di Cimabue, ma ancora divenne tanto imitatore della natura, che ne‘ tempi suoi sbandì affatto quella greca goffa maniera, e risuscitò la moderna e buona arte della pittura, e introdusse il ritrar di naturale le persone vive, che molte centinaia d’anni non s’era usato.[...]"

(ed. 1550, p.118)

"[...] ancora oggi dì, si vede ritratto, nella cappella del Palagio del Podestà di Fiorenza, l’effigie di Dante Alighieri, coetano et amico di Giotto, et amato da lui per le rare doti che la natura aveva nella bontà del gran pittore impresse; [...]"

(ed. 1550, p.118-119)

"Fu, come si è detto, Giotto ingegnoso e piacevole molti, e nei motti argutissimo, de‘ quali n’è anco viva memoria in questa città".

(ed. 1568, p.406)

"et a Fiorenza ritornatosi, alli VIII di gennaio nel MCCCXXXVI rese l’anima a Dio, onde da gli artefici pianto et a‘ suoi cittadini assai doluto, non senza portarlo alla sepoltura con quelle esequie onorevoli che a una tanta virtù com’era quella di Giotto si convenissi, et a una patria come Fiorenza, degna d’uno ingegno mirabile come il suo. E così quel giorno non restò uomo, piccolo o grande, che non facesse segno con le lacrime o co ‘l dolersi della perdita di tanto uomo. Il quale, per le rare virtù che in lui risplenderono, meritò, ancora che e‘ fosse nato di sangue vile, lode e fama certo chiarissima.

(ed. 1550, p.127-128)

Il capitolo delle Vite di Giorgio Vasari è, senz’altro, il più noto riferimento a Giotto nel Cinquecento.

Il testo intero (sia dell’edizione del 1550, sia del 1568) è riprodotto altrove (vedi tabella); ci limiteremo a citare in questo capitolo alcune sequenze particolarmente interessanti.

Nella prefazione alla parte seconda delle Vite, Vasari sottolinea un punto essenziale della novità artistica di Giotto: il realismo straordinario delle sue figure, la loro vivacità espressiva eccezionale. Questa particolarità viene rivelata dalla maggior parte dei commentatori di Giotto, precedenti al Vasari.

Il critico riprende la leggenda, iniziata dal Ghiberti nei suoi Commentarii, del giovane Giotto-pastore, scoperto un giorno nella natura mentre disegnava una pecora su una pietra.

Vasari accenna, inoltre, al mito dell’artista illuminato dalla natura, il cui genio si forma senza aver bisogno delle istruzioni di un maestro artista. Leggiamo a questo proposito nell’edizione del 1568:

"E veramente, fu in que‘ tempi un miracolo, che Giotto avesse tanta vaghezza nel dipingere, considerando massimamente che egli imparò l’arte in un certo modo senza maestro" (p.389)

  Luciano Bellosi nel suo commento alle Vite indica che maniera "greca" equivale a quello che noi chiamiamo oggi "bizantino". Secondo Bellosi, il Vasari aggiunge l’aggettivo "goffo" (che usa sempre come peggiorativo di "vecchio") per evitare confusione con i Greci "antichi".

Già il Ghiberti, nei suoi Commentarii, nota che Giotto "lasciò la rozzezza de’Greci".

Un altro punto comune ai commentatori tradizionali di Giotto, e che ritroviamo anche nelle Vite, è la leggendaria amicizia di Dante e Giotto. Anche se storicamente non dimostrabile con certezza, questa amicizia tra il più grande poeta toscano e il capomaestro della pittura trecentesca, è di un'importanza fondamentale per lo sviluppo della leggenda intorno all’artista Giotto.

L’identificazione di Dante con una figura del Giudizio Universale nella cappella della Maddalena nel palazzo del Bargello ha, però, una tradizione assai dubbia .

Vasari include, fra l’altro, molti aneddoti nel suo testo che testimoniano della perspicacia e prontezza di parola di Giotto (per questi aneddoti famosissimi vedi: PERSONAGGI > GIOTTO > ARGUZIA).

Nei paragrafi finali, dedicati alla morte di Giotto, il Vasari rivela la grande ammirazione di cui Giotto godeva già durante la sua vita.

Il capitolo si chiude con la citazione dell’epitaffio, laudatio bellissima, redatta da Angelo Poliziano:

"ILLE EGO SUM PER QUEM PICTURA EXTINCTA REVIXIT / CUI QUAM RECTA MANUS TAM FUIT ET FACILIS / NATURAE DEERAT NOSTRAE QUOD DEFUIT ARTI / PLUS LICUIT NULLI PINGERE NEC MELIUS / MIRARIS TURRIM EGREGIAM SACRO AERE SONANTEM? / HAEC QUOQUE DE MODULO CREVIT AD ASTRA MEO / DENIQUE SUM IOTTUS. QUID OPUS FUIT ILLA REFERRE? / HOC NOMEN LONGI CARMINIS INSTAR ERIT."

Falaschi richiama la nostra attenzione sul fatto che, per lungo tempo, la maggior parte della letteratura riguardante Giotto si è basata sulle Vite di Vasari. All’inizio del Novecento, fu ancora considerato essere "a little more regardful of effect than of strict biographical accuracy" (Vasari on Technique, L.S. Maclehose, London, 1907, p.4). Berenso, invece, fu meno delicato e designò Vasari un "indifferent connoisseur and a poor historian; but he was a passionate anecdote-monger" (Berenson, The Drawings of the Florentine Painters, London, 1903, I, p.18).

Falaschi chiude la sua riflessione aggiungendo che "What these latter-day critics failed to appreciate was the necessity in Renaissance times of inventing stories in order to explain the phenomenon of Giotto to later generations." (FALASCHI, 1972, p.25-26).