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GENEALOGIE DEORUM GENTILIUM
LIBRO QUATTORDICESIMO, X "X. Stultum credere poetas nil sensisse sub cortice fabularum. Sunt es his non nulli tante temeritatis, ut, nulla autoritate suffulti, non vereantur dicere stolidissimum arbitrari clarissimos poetas sensum aliquem suis supposuisse fabellis, quin imo illas fecisse ostensuri quam magna possent eloquentie sue vires, et potissime, dum, eis agentibus, crederentur ab insipidis falsa pro veris. 0 iniquitas hominuml 0 ridenda stoliditas! 0 ineptum facinus! Dum alios deprimunt, se putant ignorantes extollere. Quis preter ignaros dicat: "Fecerunt fabulas poete vacuas et inanes, solo valentes cortice, ut eloquentiam demonstrarent?" Quasi circa vera vis eloquentie non possit ostendi! Male profecto noverunt Quintiliani sententiam, cuius maximi oratoris opinio est circa falsa nullum eloquentie nervum posse consistere. Sed de hoc alias. Quis enim, ut ad hos veniam, tam demens tamque vecors erit, qui, legens in Buccolicis VirgiIii: "Namque canebat uti magnum per inane coacta", una cum non nullis in hanc sententiam sequentibus carminibus; et, in Georgicis: "Esse apibus partem divine mentis et haustus" cum applicitis ad hoc; et in Eneida: "Principio celurn et terras camposque liquentesl' cum annexis, ex quibus merus phylosophie succus exprimitur, non videat liquido Virgilium fuisse phyIosophum et arbitretur eruditissimum hominem ob ostentandam eloquentiam suam, qua profecto plurimum valuit, Aristeum pastorem in penetralia terre ad Cyrenem matrem deduxisse, aut Eneam, ut patrem videret, ad inferos,:'absque abscondito sub fabuloso velamine intellectu scripsisse? Quis tam sui inscius, qui, advertens nostrum Dantem sacre theologie implicitos persepe nexus mira demonstratione solventem, non. sentiat eum non solum phylosophum, sed theologum insignem fuisse?"' Et si hoc existimet, qua fultus ratione arbitrabitur eum bimembrem gryphem, currum in culmine severi montis trahentem, septem candelabris et totidem sociatum nynphis, cum reliqua triunphali pompa, ut ostenderet quia rithimos fabulasque sciret componere? Quis insuper adeo insanus erit, ut putet preclarissimum virum atque christianissimum Franciscum Petrarcam, cuius vitam et mores orrmi sanctitate laudabiles vidimus ipsi, atque, prestante Deo, diu videbimus, et quo neminem magis redimentem non dicam tempus tantum, sed quoscunque temporis labentis athomos noscimus, expendisse tot vigilias, tot sacras meditationes, tot horas, dies et annos, quot iure possimus existimare inpensos, si Buccolici sui carminis gravitatem, si ornatum, si verborum exquisitum decus pensemus, ut Gallum fingeret Tyrheno calamos exposcentem, aut iurgantes invicem Panphylum et Mitionem et alios delirantes eque pastores? Nemo edepol sui satis compos assentiet; et longe minus qui viderunt que scripserit soluto stilo in libro Solitarie vite et in eo, quem titulavit De remediis ad utramque fortunam, ut alios plures omictam. In quibus, quicquid in moralis phylosophie sinu potest sanctitatis aut perspicacitatis assumi, tanta verborum maiestate percipitur, ut nil plenius, nil ornatius, nil maturius, nil denique sanctius ad instructionem mortalium dici queat. Possem preterea et meum Buccolicum carmen inducere, cuius sensus ego sum conscius, sed omictendum censui, quia nec adhuc tanti sum ut inter prestantes viros misceri debeam, et quia propria sunt alienis linquenda sermonibus. Taceant ergo blateratores inscii, et omutescant superbi, si possunt, cum, ne dum insignes viros, lacte Musarum educatos et in laribus phylosophie versatos atque sacris duratos studiis, profundissimos in suis poematibus sensus apposuisse semper credendum sit, sed etiam nullam esse usquam tam delirantem aniculam, circa foculum domestici laris una cum vigilantibus hibernis noctibus fabellas orci, seu fatarum, vel Lammiarum, et huiusmodi, ex quibus sepissime inventa conficiunt, fingentem atque recitantem, que sub pretextu relatorum non sentiat aliquem iuxta vires sui modici intellectus sensum minime quandoque ridendum, per quem velit aut terrorem incutere parvulis, aut oblectare puellas, aut senes ludere, aut saltem Fortune vires ostendere." Traduzione italiana: "X. È stolto credere che i poeti nulla abbiano inteso dire sotto la scorza delle favole. Tra questi critici ce ne, sono alcuni così temerari che, non appoggiandosi ad alcuna autorità, non si peritano di dire che è stoltissimo credere che i più famosi poeti hanno nascosto qualche significato sotto le loro favole; anzi che le hanno composte per dimostrare quanto possano le forze dell'eloquenza; e specialmente quando, per mezzo delle favole, le cose false erano credute vere dagli ignoranti. Oh iniquità d'uomini, oh ridicola stoltezza, oh vana malizia! Mentre abbassano gli altri, gli ignoranti credono d'innalzare se stessi. Chi, all'infuori degli ignoranti, potrebbe dire: "i poeti hanno composto favole vuote ed inutili, valide solo per la loro superficie. per dimostrare di essere eloquenti?" Quasi che la forza dell'eloquenza non possa essre mostrata nelle cose vere! Certo male conoscono l'opinione di Quintiliano, massimo oratore, che nessun nerbo di eloquenza possa esserci nefle cose false. Ma di ciò altra volta. Chi dunque - per venire a costoro - sarà così demente e sconsiderato da non accorgersi, leggendo nei Bucolica di Virgilio: "infatti cantava come se (i principi delle cose) si fossero aggregati per l'immenso vuoto"; insieme con alcuni versi seguenti di questo tenore nei Georgica: "una parte della mente divina e uno spirito attinto dal cielo essere nelle api"; con i concetti aggiunti a questi; e nell'Aeneis: "In primo luogo il cielo, la terra e le distese del mare", con quanto segue (da cui sgorga il puro succo della filosofia); chi dunque così stolto da non accorgersi che Virgilio fu filosofo e da credere che quell'uomo dottissimo, solo per dimostrare la sua eloquenza - nella quale certamente molto valse - abbia condotto il pastore Aristeo nei penetrali della terra alla madre Cirene, o Enea per vedere il padre all'inferno; e che abbia scritto, senza intenzioni di nascondere qualcosa sotto il velo della favola? Chi è così ignaro di sé, che, vedendo il nostro Dante molte volte sciogliere con meravigliosa dimostrazione i nodi intricati della teologia, non si accorga lui essere stato non solo sommo filosofo, ma anche insigne teologo? E se ciò stimasse, su qual fondamento potrà ritenere che egli abbia inventato che un grifone bimembre trascini il carro sulla cima dell'aspro monte, accompagnato da sette candelabri e altrettante ninfe, insieme con il corteggio trionfale, solo per dimostrare che sapeva comporre rime e favole? E chi inoltre sarà così sciocco da credere che quell'illustrissimo e cristianissirno uomo che fu Francesco Petrarca (della cui vita e dei cui costumi, lodevoli per ogni santità, siamo noi stessi testimoni, e lo saremo ancora a lungo con l'aiuto di Dio, e del quale nessuno conosco che con maggiore impegno abbia guadagnato, non dico solo il tempo, ma ciascun attimo del tempo che fugge) abbia speso tante veglie, tante sante meditazioni, tante ore, giorni e anni, quanti a ragione possiamo stimare abbia speso - se del suo Bucolicum carmen misureremo la gravità del verso e la squisita eleganza delle parole - solo per immaginare e rappresentaree Gallo che domanda a Tirreno la sua zampogna; o Panfilo e Mitione in lite fra loro, e altri pastori ugualmente deliranti? Nessuno davvero, che sia in senno, vi assentirà; e molto meno vi assentiranno quelli che hanno veduto ciò che egli ha scritto in prosa nel libro De vita solitaria, o in quello che ha intitolato De remediis ad utramque fortunam, per lasciarne molti altri. Nei quali, quanto di santità o di perspicacia può essere assunto nel seno della filosofia morale, con tale maestà di linguaggio viene colto, che nulla di più pieno, di più ornato, di più maturo, e infine di più santo, possa essere detto per istruzione degli uomini. Potrei anche addurre il mio Buccolicum carmen, del cui significato sono io consapevole; ma ho creduto bene tacerne, perché non ancora sono così importante da essere mescolato con uomini eccellenti; e perché le cose proprie devono essere lasciate ai discorsi degli altri. Tacciano adunque questi cianciatori ignoranti e ammutoliscano, se possono, i superbi, poiché è da credere che, non solo gli uomini illustri, nutriti dal latte delle Muse e vissuti nelle case della filosofia e temprati dagli studi sacri, abbiano sempre messo profondissimi significati nei loro poemi, ma anche che non ci sia in alcun luogo così delirante vecchietta, attorno al focherello di casa, a veglia insieme con altri, nelle notti invernali, che inventi e racconti favole di orchi, di fate o di streghe o simili (di cui molto spesso sono piene quelle favole), senza sentire, sotto l'ornamento dei racconti - e Secondo le forze del suo modesto intelletto - un significato, talvolta per nulla da riderne, per il quale voglia, o incutere paura ai fanciulli, o dilettare le donzelle, o prendere in giro i vecchi, o almeno mostrare il Potere della Fortuna." Boccaccio, Giovanni, Tutte le opere, a c. di Vittore Branca, VII-VIII, Genealogie Deorum Gentilium, XIV, X, Milano, Mondadori, 1998, pp. 1418-1423. |
Nella Genealogia il Boccaccio difende appassionatamente la poesia. (STEWART 1986, p. 100)
Il tema degli ignoranti" sembra fare da filo rosso in tutta lopera in questione. Consigliamo quindi la lettura dell'opera intera, in particolar modo il capitolo X, che riproduciamo qui per esteso (in latino e nella traduzione italiana). Il capitolo pullula di riferimenti a proposito. |