Il topos della „deceptio“

Cerchiamo ora di riconoscere come il topos della „deceptio“ si manifesta al livello dell'enunciato e al livello dell'enunciazione. Vediamo come il rapporto tra aspetto esteriore e aspetto interiore cambia in ogni singolo caso.

Il livello dell’enunciato

Il livello dell’enunciato ci presenta Giotto come „bellissimo favellatore“ che ad un certo punto è osservato da Forese. Il quadro decisamente caricaturale dell’aspetto di Giotto che si presenta agli occhi di Forese fa scaturire in lui la domanda che porrà a Giotto. Giotto, a sua volta, prontamente risponde e Forese riconoscendo il suo errore, ammutolisce. Avvertiamo dunque un mutamento nell’atteggiamento di Forese.

Tabella 1: livello dell’enunciato


Giotto

Forese

Forese

Giotto

Forese

Il bellissimo fa-vellatore rac-conta

Osserva

Ride e giudica a partire dalle apparenze, ne trae una con-clusione sba-gliata

Risponde pron-tamente

capisce

Il livello dell’enunciazione

In questo senso si svolge il movimento sul livello dell’enunciazione. Giotto, come è noto, non soltanto sa parlare, ma anche e soprattutto sa dipingere. Il suo pubblico osserva, ammira i suoi capolavori. Giotto non dipinge soltanto per il piacere visivo, ma lo fa in funzione di un significato. Il pubblico intelligente (vedi: TEMI E TOPOI > I DOTTI E GLI IGNORANTI) è in grado di riconoscere il significato profondo dell’opera. Questo tipo di pubblico non fruisce dunque dell’opera soltanto attraverso i sensi, ma anche attraverso lo spirito.

Tabella 2: livello dell’enunciazione

Giotto

Il pubblico di Giotto

Il pubblico ignorante

Giotto

Il pubblico intelligente

dipinge

Osserva, guar-da

Vede, ma non capisce; rima-ne a questo li-vello

Trasmette at-traverso la pit-tura un signifi-cato profondo

Capisce il sig-nificato dell’o-pera

E nella stessa maniera, ma ora a un livello superiore, il Boccaccio scrive le novelle lette dai suoi destinatari. Il lettore disattento, „ignorante“, non va oltre il significato letterale. Ma la parola di Boccaccio agisce, fa credere e crea una nuova realtà. La parola è capace di trasformare il reale. Soltanto il lettore che da „ignorante“ riesce a convertirsi in lettore „dotto“ riuscirà a capire il vero significato, quello profondo.

Boccaccio inoltre sembra rivolgersi implicitamente anche ai suoi critici, ponendoli allo stesso livello dei lettori „ignoranti“ che si lasciano ingannare dall’apparenza visiva.

Non è l'unico riferimento a proposito, se si pensa alla conclusione del Decameron, quando accusa i critici di non aver letto l’opera „con ragionevole occhio da intendente persona” (Conclusione, §4) e più in là si paragona al pittore, per difendersi dalle accuse di „troppa licenzia“ o „alcuna paroletta più liberale che forse non si conviene“:

Sanza che alla mia penna non dee essere meno d’auttorità conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia e a san Giorgio il dragone dove gli piace, ma egli fa Cristo maschio e Eva femina, e a Lui medesimo, che volle per la salute della umana generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella. (Conclusione §6)

Tabella 3: livello dell'enunciazione

Boccaccio

Il destinatario

Il lettore

ignorante

Boccaccio

Il lettore intelligente

scrive

Legge la novel-la

Non va oltre il significato pri-mo

Cela il vero significato

Capisce il sig-nificato profondo

Boccaccio

Il destinatario

I critici

Boccaccio

I critici

scrive

Legge la novel-la

Non vogliono andare oltre il significato primo

Cela il vero significato

la metamorfosi da "ignoranti" a "dotti" non avviene

La struttura attoriale si proietta nella realtà artistica di Giotto come anche in quella di Boccaccio. Queste due realtà sono a loro volta ricollegabili fra loro come lo si legge appunto nella Conclusione §6.

A questo proposito ricordiamo che già nella Genealogia, XIV, 6 il Boccaccio difende la sua arte poetica paragonandola a quella pittorica, in quanto ai pittori sarebbe concessa una maggiore liberalità rispetto agli scrittori.

I meriti di Giotto e di Boccaccio sono dunque molto simili. Se Giotto, quale pittore, deve leggere nel libro della Natura per poi riprodurla, creando un'illusione di realtà, anche Boccaccio, quale autore, deve inoltrarsi nella lettura della tradizione medievale per creare una realtà nuova, una versione innovativa e originale.

Entrambi gli artisti escono vittoriosi da questa impresa, come ci mostra la novella stessa, nella quale Giotto riesce a mettere a tacere Forese.

In ogni caso anche il personaggio di Forese esemplifica uno stato di maturazione. Forese, ricevuta la risposta arguta di Giotto, cambierà atteggiamento, dimostrando di aver capito il suo errore. Ed è proprio in tal modo che Forese rappresenta l’immagine del lettore ideale.

Come si articola l’inganno nella novella VI 5?

Nella novella VI 5 il topos della „deceptio“ si articola come un triplice inganno (WATSON 1984, p. 58). La tabella mostra il raffronto fra i vari tipi di inganno, le varie realizzazioni e i modi di scioglimento dell’inganno. Si tratta sempre di un gioco delle apparenze che può solo essere capito da chi è in grado di scoprire la realtà nuova che vi si cela dietro:

La triplice articolazione dell’inganno

ingannatore

NATURA

ARTE

CIRCOSTANZE

tipo d’inganno

“sotto turpissime for-me d’uomini si trova-no maravigliosi inge-gni della natura esse-re stati riposti”

“il visivo senso degli uomini vi prese erro-re, quello credendo esser vero che era dipinto”

“Forese, veggendo ogni cosa cosí disor-revole e cosí disparu-to [...] cominciò Color a ridere e disse:"

realizzazione dell’inganno

Forese da Rabatta

- piccolo

- isformato

- viso piatto e

  ricagnato

- viso turpe anche

  rispetto a un Baron-

  ci più deforme

- di tanto sentimento

  nelle leggi

- reputato uno

  armario di ragione

  civile

Giotto di Bondone

- ingegno di tanta

  eccellenzia

- ha ritornato

  quell’arte in luce,   

  che molti secoli  

  sotto gli error

  d’alcuni, che più a

  dilettar gli ochi degli

  ignoranti che a   

  compiacere allo

  ‘ntelletto de’ savi

  dipingendo

- meritatamente una

  delle luci della fio-

  rentina gloria dir si

  puote

- umile, sempre

  rifiutando di

  essere chiamato

  maestro

- tanto più il titolo

  risplendeva in lui

- l’arte è grandissima

ma:

- non era egli per ciò

  né di persona né

  d’aspetto in niuna

  cosa più bello che

  fosse messer Fore- 

  se

il dipinto  compete con la natura

“[...] presi dal lavo-ratore in prestanza due mantellacci vecchi di romagnuolo e due cappelli tutti rosi dalla vecchiezza [...]”

“[...] essendo essi alquanto andati e tutti molli veggendosi e per gli schizzi che i ronzini fanno co’ piedi in quantità zaccherosi [...]”

Ricordiamo che invece nella novella VI 2 operatrice dell’inganno era la fortuna, che viene rimenzionata nella parte introduttiva della novella in questione. Panfilo riferendosi alla novella di Cisti, ricorda che la fortuna „sotto vili arti alcuna volta grandissimi tesori di vertú nasconde“ (VI 5, 3).

Boccaccio nella nostra novella VI 5 inverte abilmente il gioco delle apparenze. Gli attori messi in scena, e in particolar modo Giotto, sembrano essere la negazione stessa delle loro opere. L’occhio, al posto di essere catturato dalla bellezza, dalla purità della forma, dalla congiunzione della realtà con l’immaginario, viene colto dalla bruttezza (vedi: PERSONAGGI > GIOTTO > BRUTTEZZA), dalle impurità formali e dalla sudicezza degli abiti, dalla disgiunzione tra realtà e immaginario, reso possiblie ancora di più dal „travestimento“ dei due compagni di viaggio. In questo senso Boccaccio brilla nella sua arte, presentandoci un quadretto del tutto caricaturale e umoristico (vedi: FIGURE RETORICHE > CARICATURA). L’arte (pittorica, giuridica, letteraria) e la sua raffigurazione nella novella attraverso i protagonisti sono due elementi che vengono messi insieme antiteticamente, opponendo il brutto al bello.

Concludiamo con un simpatico aneddoto riportato dal Vasari che vede protagonisti Giotto e il suo maestro Cimabue (MILANESI 1906, p. 408):