FONTE, STRUTTURA E FUNZIONE
DELLA METANOVELLA DI MADONNA ORETTA
L'individuazione della fonte di un'opera letteraria può servire a volte non solo a riempire un'altra casella nella relativa bibliografia ma anche a far luce sulla genesi, sul carattere e sulla funzione dell'opera stessa, e può portare perfino ad uno spostamento rilevante nella valutazione critica dell'efficacia dell'opera. È questo precisamente il caso, se non mi sbaglio, della novella di Madonna Oretta (Dec., VI 1) la cui fonte è rimasta finora sconosciuta agli studiosi.
La sesta Giornata del Decameron, come si sa, è dedicata a «chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno ». La prima breve novella della Giornata, che non è certamente fra quelle più fortunate e ammirate del libro1, inizia quindi la serie che contiene capolavori ammiratissimi come la novella di Cisti (VI 2), di Chichibio (VI 4) o quella di Frate Cipolla (VI 10). Ora, mentre non si vuole asserire che la prima novella sia proprio al livello della seconda, della quarta o della decima, si vuole proporre in questa sede che la poca fortuna che gode questa prima novella sia dovuta piuttosto alle difficoltà di interpretazione, alle stranezze, alle incoerenze più apparenti che vere, che si devono in parte almeno alla sua insolita genesi.
In questa novella una gentildonna fiorentina cammina per la campagna fra una brigata di dame e cavalieri. Uno dei cavalieri, per farle dimenticare la noia del viaggio, si offre di raccontare una novella: «Madonna Oretta», egli le dice «quando voi vogliate,
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io vi porterò gran parte della via che ad andare abbiamo a cavallo con una delle belle novelle del mondo». Ma il cavaliere, pur avendo scelto una novella «bellissima», non sapendo raccontare, la rovina completamente. Madonna Oretta, dopo aver sopportato per molto tempo con garbato silenzio, alla fine, esasperata, lo interrompe, dicendo: «Messer, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto, per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè»2 . Dopo di che il cavaliere riconosce il suo fallo e abbandona il racconto garbugliato.
La novella si attiene quindi strettamente al tema della sesta Giornata: l'elemento principale che la riallaccia questo tema è il «leggiadro motto» di Madonna Oretta ispirato dalla insolita metafora usata dall'anonimo cavaliere. Ora la ragione principale della apparente debolezza narrativa della novella è da ricercare non tanto in questa battuta di Madonna Oretta (la quale in effetti costituisce un mezzo efficace di muovere un rimprovero con la massima cortesia) quanto nel traslato iniziale del cavaliere, che sembra costruito e inserito in modo macchinoso solo per fornire l'occasione della risposta spiritosa di Madonna Oretta. L'espressione stessa usata dal cavaliere riesce addirittura poco chiara, a giudicare almeno dalle reazioni dei commentatori e dei lettori: tutti i commentatori sentono il bisogno di glossare l'espressione; e di solito quei lettori che si ricordano vagamente della novella si figurano una Madonna Oretta a cavallo, errore in cui è caduto perfino l'autore della xilografia che appare nella più antica edizione illustrata dell'opera (Venezia, 1492 ) 3.
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Ma che cos'è questa metafora del cavallo usata dal cavaliere? Da dove deriva? È semplicemente un'invenzione del Boccaccio? E
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una risposta a queste domande in che senso può giovare alla comprensione della funzione della metafora e dell'interpretazione della novella?
Le più autorevoli edizioni moderne del Decameron non citano fonti precise per questa novella e si limitano ad accennare a una vaga somiglianza con un racconto del Novellino4.
L'espressione usata dal cavaliere sembrerebbe a tutta prima ricalcare un modo di dire del tipo «siamo a cavallo» o simili, che spiegherebbe in modo meccanico l'origine del gioco di parole. Ma prima del Boccaccio stesso non sembra esservi traccia di un'espressione del genere 5, né c'è veramente ragione di ipotizzarla visto che l'origine della metafora si può spiegare altrimenti e con riferimenti precisi. Infatti la precisa formulazione verbale del traslato così caratteristica («vi porterò a cavallo con una novella») e il gioco di parole che ne deriva e che costituisce la «pronta risposta» di Madonna Oretta sono da collocare invece nell'ambito specifico di una tradizione diversa, quella dell'enigma.
Nel medioevo, come si sa, esisteva una vasta letteratura enigmistica. Basta pensare al gusto degli antichi anglo-sassoni per i rebus e gli indovinelli, alla moda portata alla corte di Carlomagno dall'Irlanda e alle raccolte individuali di Adelmo, Tatwini, Angilberto e Paolo Diacono. E ci sono collezioni nelle letterature orientali e occidentali che risalgono sino ai tempi più antichi. È chiaro che, da una parte, l'enigma è affine agli indovinelli, rebus, motti, detti, facezie, giochi di parole, proverbi. E infatti si cita (inavvedutamente, come risulterà più sotto) come fonte del Boccaccio un motto
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latino che dimostra certe affinità con l'espressione di cui qui si tratta6 .
Ma dall'altra parte l'enigma è legato non solo alle forme brevi enumerate qui sopra, ma anche alla letteratura narrativa, e in modo particolare a quel tipo di racconto come la Turandot di Gozzi, dove un enigma o un indovinello costituisce una parte integrante della trama stessa. Ed è precisamente nell'ambito di questa tradizione che è individuabile un'espressione enigmatica del tutto simile a quella presente nella novella del Boccaccio. L'espressione vi appare costantemente inserita in una cornice narrativa ed è quasi sempre associata a una situazione e a un personaggio più o meno costanti. Gli elementi principali di questa tradizione sono i seguenti : un re propone ai propri sudditi un problema molto difficile da risolvere (un sogno da interpretare, una malattia da guarire, un indovinello da sciogliere, ecc.). Nessuno, nemmeno i più saggi del regno, riesce a risolvere il problema, tranne una giovane contadina sconosciuta, che fornisce la giusta soluzione e alla fine sposa il re: è la «kluge Bauerntochter» o «saggia contadinella» resa famosa dai fratelli Grimm7. Ora nelle versioni medievali, prima di risolvere il problema principale imposto dal re, la ragazza dà prova della sua saggezza spiegando una serie di detti oscuri, fra cui quello che possiamo chiamare «l'enigma del cavallo» che costituisce lo spunto della novella boccacciana.
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Vediamo una versione di particolare importanza per la nostra discussione, quella di Giuseppe b. Meir Zabara, un ebreo spagnolo che esercitò la professione di medico a Barcellona nella seconda metà del XII secolo8. La sua opera principale è il complesso Sefer aauìm, o Libro delle delizie, un continuo alternarsi di racconti, favole, aneddoti, indovinelli, detti, discussioni filosofiche e mediche, una straordinaria e vivace miscellanea di elementi disparati riuniti da una «cornice» di viaggiatori-narratori. Entro questa cornice vengono raccolte quindici novelle principali, alcune delle quali hanno un raggio di diffusione mondiale estremamente vasto (la matrona di Efeso, la volpe nel vigneto, la storia di Tobit), con paralleli nella letteratura occidentale, specialmente nelle raccolte di exempla, mentre altre non sembrano avere riscontri facilmente individuabili9. Ciò che ci interessa in questa sede è la settima novella, che viene raccontata nella terza parte del libro, quando Enan, il gigante che viaggia con Zabara, si rivolge all'autore-protagonista, dicendogli: «Tu porta me o io porterò te». Zabara rimane perplesso perché sono entrambi già a cavallo. Allora per spiegare il mistero della frase, Enan gli narra «la novella del contadino e l'eunuco del re». Un re sogna che una scimmia dello Yemen «salta al collo» delle sue mogli. Al mattino, tutto preoccupato perché gli sembra che questo sogno debba significare che il re dello Yemen sta per impossessarsi dei suoi averi e del suo regno, si confida con un eunuco della sua corte il quale gli dice di conoscere di fama un saggio che saprà certamente trovare una spiegazione del sogno. L'eunuco parte in cerca del saggio e durante il viaggio s'imbatte in un contadino, anch'egli su una mula, il quale si offre di ospitarlo a casa sua. Mentre cavalcano verso casa, l'eunuco del re rivolge al contadino frasi
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in apparenza assurde, fra cui questa: «Portami tu o io porterò te». Il contadino lo prende per pazzo e quando arrivano a casa racconta l'accaduto alla moglie e alle figlie. La più giovane gli spiega che l'eunuco del re è tutt'altro che pazzo e gli rivela il significato di tutti i suoi detti oscuri. In particolare, spiega che la strana espressione usata dall'eunuco significa che «chi, viaggiando con un compagno, gli racconta detti e novelle, e cita indovinelli e proverbi, con questo 'porta' il suo compagno e gli fa strada e gli alleggerisce il tedio del viaggio e lo libera dai pensieri inquietanti». Vi segue una serie di prove reciproche di saggezza fra la contadinella e l'eunuco, e alla fine questi conduce la ragazza alla presenza del re, al quale spiega che il sogno della scimmia significa che nell'harem c'è un uomo travestito da donna. Il re lo cerca e, scopertolo, lo uccide. Poi dopo aver cosparso di sangue il viso delle sue mogli, ordina che siano arse vive e sposa la «saggia contadinella».
Abbiamo scelto la versione di Zabara perché è fra le versioni più complesse e elaborate della tradizione; e perché costituisce l'anello di congiunzione fra la tradizione orientale e quella occidentale nel senso che mentre molte delle fonti narrative dello Zabara sono arabe (e le sue conoscenze di Aristotele e della medicina derivano da autori arabi) esiste anche una versione medievale del racconto in latino, di cui diremo fra poco, la quale, se non è precisamente una traduzione del racconto di Zabara, da esso dipende più o meno direttamente.
Il racconto di Zabara costituisce solo una fra le tante tappe di una lunga e diffusa tradizione narrativa che va dalla versione afghana10 a quella dei fratelli Grimm la quale rappresenta una fase seriore che ormai sta discostandosi dal materiale medievale. Comunque, nonostante le varianti notevoli, gli elementi essenziali rimangono quasi sempre ancora riconoscibili.
Nel racconto indiano per esempio un re vede ridere un pesce (motivo caratteristicamente indiano) e comanda al suo wazir di scoprire il perché. Il wazir si mette in viaggio, incontra un vecchio e gli rivolge le solite osservazioni in apparenza senza senso. Alla fine la figlia del vecchio interpreta queste espressioni enigmatiche,
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fra cui l'enigma del cavallo, e spiega che il pesce ride perché c'è un uomo nell'harem del re. La ragazza sposa il figlio del wazir11.
Nella versione registrata nell'Ottocento dai fratelli Grimm12 così diversa da quella medievale di Zabara, invece di indovinelli o enigmi alla ragazza vengono imposti tre compiti paradossali; e sebbene questi tre compiti possano sembrare remotissimi dagli enigmi di Zabara va notato che il secondo compito impone alla ragazza di comparire davanti al re «non a cavallo né in carrozza»; si sente ancora l'eco dell'« enigma del cavallo ».
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Senza indugiare su una descrizione di tante altre versioni che hanno attinenza con questa tradizione narrativa, veniamo piuttosto al testo che costituisce il nesso fra questa tradizione e il Boccaccio. Come abbiamo accennato, il racconto di Zabara sta alla base di quello contenuto in un'opera latina medievale, la Compilatio singularis exemplorum, un vasto repertorio di materiale da utilizzare nelle prediche. È una delle tante collezioni di exempla che circolavano nel medioevo. Di quest'opera sono noti due manoscritti del '400, ma la compilazione originale è sicuramente databile alla fine del Duecento13 e quindi certamente anteriore al Boccaccio. Benché ci siano discrepanze fra la versione di Zabara e quella della Compilatio (questa contiene, ad esempio, certi enigmi ignoti al Sefer aauìm) che fanno supporre almeno un intermediario fra le due opere (un secolo separa la composizione dei due testi), il rapporto fra le due versioni è incontestabile14 .
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Nella Compilatio «il re» diventa «Rex Saba» evidentemente per dare maggior autorità alla figura della saggia contadinella, la quale avendo interpretato il sogno misterioso sposa il re, così diventando regina di Saba di fama biblica e di leggendaria saggezza; ma gli elementi essenziali del racconto sono comuni ai due testi15.
La Compilatio sarebbe inoltre la fonte diretta del racconto del Sercambi De magna prudentia (Renier n. 4)16, opera in cui il tema, pur conservando lo schema della Compilatio, è sottoposto a uno sviluppo piuttosto prolisso, con i soliti interventi ed elaborazioni tra pie e oscene proprie del Sercambi17'. La stretta parentela fra il testo latino e il racconto del novellatore lucchese è importante in quanto indice della disponibilità della Compilatio in un ambiente letterario geograficamente e cronologicamente, se non culturalmente, assai vicino a quello della Firenze del Boccaccio18. Nulla vieta quindi che quest'opera fosse nota al Boccaccio.
Finora abbiamo stabilito il possibile tramite del materiale. Ora vediamo i riscontri più precisi e dettagliati.
Nella Compilatio il confidente del re è un certo «miles» anonimo che per spiegare il sogno va in cerca di «quandam puellam nobilem sapientissimam». Avvicinandosi alla città dove abita la ragazza, incontra un gruppo di cavalieri che accompagnano il giovane fidanzato che sta per sposarla. Viaggiando tutti insieme, il
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miles dice al promesso sposo: «Abreviate nobis viam»; e poi aggiunge: « Portate me aliquantulum de via ista et ego tantundem portabo vos». Più tardi durante la festa nuziale, lo sposo «pro fatuo eum reputans» gli rinfaccia queste sue apparenti sciocchezze e gli chiede: «Nonne dixistis michi quod abreviarem vobis viam illam et quod portarem vos et vos me portaretis?» A questo punto la giovane sposa interviene con una spiegazione: «Quando duo milites equitant et unus narrat aliquod pulchrum exemplum, dicitur socium portare eum et viam abreviare». E risolve anche gli altri enigmi del miles. Condotta al palazzo del re scopre l'uomo fra le damigelle della regina e, dimenticando completamente il povero giovane, sposa il re; e così diventa la Regina di Saba.
La coincidenza fraseologica fra il Decameron e la Compilatio è troppo precisa per essere semplicemente fortuita. Prima di tutto vi è l'uso, che forse potrebbe sembrare poco significativo, dello stesso verbo «portare», nei due testi. Ma l'espressione «vi porterò gran parte della via che ad andare abbiamo» nel testo decameroniano appare come calco preciso del latino «portate me aliquantulum de via ista» dove la presenza del gratuito «gran parte della via» (perché solo gran parte?) appare probante. Riassumendo quindi, possiamo dire che la Compilatio era accessibile al Boccaccio, che contiene ' l'enigma del cavallo ' in un contesto narrativo come nel Decameron, che ci sono strette affinità fra i personaggi dei due testi, e che ci sono echi testuali precisi della Compilatio nel testo decameroniano.
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Chiarito che il Boccaccio non ha inventato ex nihilo l'espressione19, né l'ha coniata in base ad un motto latino o ad un modo di dire della lingua parlata, ma che l'ha presa dalla Compilatio o da un testo che da essa dipende, va sottolineato a questo punto che per la prima volta, nel Boccaccio a differenza degli altri testi
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citati, l'espressione in esame non ha forma di enigma ma di metafora. Ora in un'opera estremamente eclettica come appunto il Seler aauìm un enigma può rimanere tale quale senza la minima stonatura, servendo così ad accrescere la già notevole mole di proverbi, detti, ricette mediche, ecc. Il Boccaccio invece sente la necessità di eliminare l'elemento enigmistico prima di potere utilizzare questo materiale in un libro che nonostante la grande varietà di fonti, di carattere, di tono delle singole novelle, rivela come opera coerentemente narrativa una salda unità strutturale. Come testimonianza della consapevolezza con cui il Boccaccio ha uniformato il suo materiale a un unico parametro narrativo si consideri il caso esemplare della novella di Madonna Dianora (X 5), uno dei due temi del Decameron che l'autore aveva già utilizzato nel Filocolo. La ' quaestio amoris ' del Filocolo si trasforma in una ' novella ' nel Decameron attraverso un semplice processo di eliminazione: la domanda finale viene troncata nella versione decameroniana, e il centro di interesse del lavoro viene spostato dal paradosso intellettuale alla vicenda narrativa e ai suoi personaggi. Un altro caso che, per quanto molto diverso, rivela la stessa preoccupazione da parte del Boccaccio di respingere ogni suggerimento palesemente didattico-problematico è quello della novella «delle tre anella» (I 3). Qui una parabola (cioè una narrazione in funzione dell'illustrazione di una tesi morale) diventa una novella in quanto il Boccaccio sposta il centro d'interesse dal racconto della vicenda dei tre anelli, narrato da Melchisedech al Saladino alla gara di intelligenza e di saggezza fra i due magnanimi, che costituiva in origine solo il mero contesto della parabola.
In modo analogo, il Boccaccio, individuando nell'aneddoto della Compilatio il germe di una novella di pronto ingegno, ha sentito il bisogno di eliminare l'elemento enigmistico della proposta del cavaliere (conservando tuttavia il personaggio come anonimo «miles»). Ha usato il semplice espediente di unire i due elementi che nelle versioni precedenti erano per forza sempre stati tenuti separati, cioè l'enigma stesso («io porterò te o tu porterai me») e la sua soluzione («questo vuol dire... che... viaggiando uno viandante racconta una novella o simile all'altro») così creando un traslato ardito e piuttosto complicato.
La nuova coniazione metaforica che risulta dall'eliminazione
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dell'elemento enigmistico a vantaggio dello schema narrativo è tuttavia, come si è visto, un'espressione poco efficace e poco chiara: «vi porterò a cavallo con una novella delle più belle del mondo».
Ma, chiediamoci, a chi dobbiamo attribuire la goffaggine dell'espressione? È questo un risultato imposto al Boccaccio dal materiale oppure l'autore ha scelto questa via liberamente? I commentatori, rispettosi persino delle «cadute» del Boccaccio, non indagano sulla natura e sulla funzione della frase, ma si limitano a parafrasarla. Invece è proprio l'íntrinseca infelicità dell'espressione che costituisce uno dei tratti più originali dell'invenzione boccaccesca. Il Boccaccio ci presenta l'interlocutore maschile di questa novella designandolo, con evidente scherno, come «messer lo cavaliere», senza nemmeno dargli un nome o un casato. Lo descrive come un nobile «al quale forse non stava meglio la spada allato che '1 novellar nella lingua». Il cavaliere, come narratore, non sa mettere insieme quattro parole in croce «or tre e quattro e sei volte replicando una medesima parola, ed ora indietro tornando». L'inizio del dialogo, in cui il cavaliere usa la metafora del cavallo rappresenta perciò il primo elemento della caratterizzazione del personaggio e ritrae efficacemente il narratore mancato con le sue ambizioni artistiche e le sue forzate agudezas. Ora in tutte le versioni che precedono il Boccaccio i personaggi rimangono in una fase di sviluppo assai schematica. Anche nella versione ebraica, fra le più complesse, Enan, Zabara 'personaggio ' e la contadina non hanno personalità coerenti, non hanno facce individuali, rivestono funzioni narrative molto più vicine a quelle della fiaba che a quelle della novellística20.
Nel Boccaccio invece ciò che riscatta la novella e la solleva dal livello di un semplice aneddoto è appunto la rapida e sapiente caratterizzazione dei due personaggi. Come spesso nel Boccaccio la caratterizzazione è raggiunta non tanto mediante la delineazione della psicologia dell'individuo (nonostante gli accenni efficaci alla «scortesia» del cavaliere e alla garbatezza del rimprovero di Ma-
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donna Oretta) quanto con la descrizione del processo di azionereazione che si instaura fra i due interlocutori, con il sempre più profondo ingarbugliarsi del cavaliere nella sua inetta narrazione che si accompagna al crescere del disagio e dell'irritazione di Madonna Oretta. Per quanto riguarda il cavaliere il suo progressivo inoltrarsi «nel pecoreccio», per usare il termine del Boccaccio, è reso in un solo lungo periodo che contiene un complesso costrutto paratattico a incastro che rispecchia anche sintatticamente l'accumularsi dei suoi spropositi: «ma egli or tre e sei volte replicando una medesima parola, ed ora indietro tornando, e talvolta dicendo: «Io non dissi bene», e spesso ne' nomi errando, uno per altro ponendone, fieramente la guastava». A suggellare la sua condanna viene aggiunta una nota sull'abilità del cavaliere nel descrivere le azioni e i personaggi: «senza che egli pessimamente, secondo la qualità delle persone e gli atti che accadevano, proffereva». A questo punto la novella precipita verso la catastrofe finale rappresentata dalla risposta di Madonna Oretta preceduta da una reazione al livello fisiologico, cioè da una specie di catarsi al contrario che dimostra l'effetto disastroso dell'arte del cavaliere: «Di che a Madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore ed uno sfinimento di cuore come se, inferma, fosse stata per terminare»21. Vi sono altri elementi, oltre a quelli già accennati (trasformazione dell'enigma in materiale narrativo, caratterizzazione dei due protagonisti), che contribuiscono a integrare la novella nel mondo e nello stile del Decameron. Innanzitutto questa novella come le altre è accompagnata da un'introduzione preliminare che non rappresenta solo un puro elemento formale ma che serve ad inserire la novella nello stesso mondo tardo-medievale e nella stessa atmosfera spirituale delle altre. Un'altra sottigliezza troviamo nella conclusione della novella dove l'autore dice: «Il cavaliere, il qual per avventura era molto migliore intenditore che novellatore, inteso il motto, e quello in festa e in gabbo preso, mise mano in altre novelle, e quella che cominciata aveva e mal seguita, senza finita lasciò stare». Qui il Boccaccio dà un'altra dimensione al personaggio rivelandolo piuttosto bonario e almeno abbastanza intelligente e sensibile da pren-
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dere in buona parte il ' motto ' di Madonna Oretta. Ma se subito «mise mano in altre novelle» non si ripeterà da capo tutta la vicenda già raccontata? Questa aggiunta inaspettata (non sarebbe stato «sufficiente» che il cavaliere desistesse del tutto dal raccontare?) troverà una giustificazione più soddisfacente quando avremo esaminato la posizione della novella nel Decameron.
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Infatti è proprio quando ci chiediamo quale sia la funzione della novella nella struttura complessiva del Decameron che lo spunto enigmistico a cui abbiamo accennato diventa veramente significativo.
La collocazione di questa novella al primo posto fra le novelle di «pronta risposta», le conferisce una funzione particolare nell'architettura della giornata e quindi dell'opera intera. La novella apre quella Sesta Giornata dedicata ad illustrare l'importanza e l'utilità dell'eloquenza per il buon funzionamento della società e che si snoda lungo un arco, le cui due estremità sono rappresentate dal cavaliere anonimo nella prima novella e da Frate Cipolla nella decima. L'uno non è degno nemmeno di avere un nome proprio, l'altro è esplorato in ogni particolare, tanto che perfino il suo servo, lo straordinario Guccio Imbratta è ritenuto meritevole di una caratterizzazione e per di più in versi. Se Frate Cipolla, questo maestro di color che non sanno («niuna scienza aveva» dice il Boccaccio) con il suo sfoggio di fantasia e di facondia applicata a materiale completamente illusorio, rappresenta il grande virtuoso dell'arte di parlare, il cavaliere rappresenta il nadir dell'eloquenza: pur avendo a disposizione «una sua novella, la quale nel vero da sé era bellissima», «fieramente la guastava». Quindi la collocazione di questa novella nel primo posto della giornata non è affatto fortuita. Nessun'altra novella della Sesta Giornata è basata così inequivocabilmente sull'arte della narrazione. Si tratta del classico racconto dentro un racconto il quale contiene una succinta ars narrandi a rovescio mentre ritrae il vero esemplare del narratore inetto. E qui vale la pena di tener in mente quale piano di narrazione stiamo esaminando: l'autore Boccaccio narra ai suoi lettori come Filomena racconta una novella ai suoi nove compagni su come un certo cavaliere ha raccontato male una no-
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vella a Madonna Oretta! Come inizio della Sesta Giornata, quindi, questa novella svolge un ruolo rilevante nella struttura del Decameron.
E la conclusione finemente ironica, analoga forse alla graziosa malizia sulle donne di Ravenna che chiude la novella di Nastagio degli Onesti (V 8), ora assume un aspetto molto più funzionale. Questa aggiunta, che sfugge facilmente al lettore disattento o frettoloso, non serve solo come un'ultima battuta comica nel momento che si cala il sipario ma serve soprattutto a ribadire il motivo del raccontare accennando ai pericoli insiti nell'arte del narrare i quali forse stanno per insidiare di nuovo l'inesperto cavaliere.
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Abbiamo visto come il Boccaccio ha preso un motivo enigmistico e come l'ha trasformato in materiale narrativo con la conseguente creazione di un nuovo elemento linguistico-stilistico. Abbiamo visto inoltre come l'autore ha adeguato questo materiale alle esigenze narrative del suo capolavoro con l'aggiunta dei due ritratti; o come questo elemento, assolutamente nuovo nella tradizione, solleva la vicenda dal livello dell'aneddoto a quello della novella.
Ora non rimane che constatare, con una certa sorpresa, come dal punto di vista strutturale la vicenda centrale si sia dimostrata straordinariamente resistente attraverso tutti questi cambiamenti. Nonostante le trasformazioni radicali nei particolari della narrazione, nonostante la creazione di una novella che riesce complessivamente molto diversa da qualunque dei testi sopracitati, il Boccaccio ha conservato intatta la struttura generale del contesto narrativo in cui ' l'enigma del cavallo ' si colloca in tutta la tradizione che abbiamo discusso, cioè una gara di intelligenza fra una personalità maschile «che propone» e una personalità femminile «che dispone»: Madonna Oretta è quindi in questo senso l'erede della Regina di Saba della Compilatio, la quale è a sua volta l'erede della saggia contadinella nota in tante letterature mondiali.
Finora l'unico elemento di continuità fra la novella del Decameron e la tradizione precedente parrebbe essere quella formula
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verbale che costituisce lo spunto per la costruzione del Boccaccio. In altri termini, nella precedente tradizione narrativa troviamo, tipicamente, un racconto in cui un rappresentante regale va in cerca della saggia contadinella e strada facendo fa una serie di osservazioni enigmatiche più tardi spiegate dalla ragazza stessa che così rivela le sue doti eccezionali ed ottiene un inaspettato trionfo sociale. E quanto abbiamo detto finora sembrerebbe implicare che ciò che il Boccaccio ha fatto è semplicemente di aver prelevato da questo materiale uno degli enigmi, quello basato sull'idea di raccontare viaggiando su cui avrebbe poi costruito un racconto del tutto nuovo, non più imperniato su tutta una serie di detti ma su uno solo, non più trattando di re orientali e di uomini di corte ma di due fiorentini del Trecento, non più la favola del trionfo di una povera ragazzina dotata di poteri magici ma una novella di pronta risposta di ambiente caratteristicamente borghese-cortese. Questo è vero fino a un certo punto.
Tuttavia, se guardiamo meno alle differenze ' superficiali ' e di più agli elementi strutturali della novella boccacciana e della versione contenuta nella Compilatio non possiamo fare a meno di concludere che, nonostante le trasformazioni radicali che hanno eliminato molti elementi della versione anteriore, i rapporti fra i due testi vanno molto oltre il semplice ma chiaro legame dell'enigma del cavallo, ossia l'elemento puramente verbale. Il fatto che il personaggio femminile sia la regina di Saba, una gentildonna fiorentina o una contadina è molto meno importante per la struttura narrativa che la constatazione che in ambedue i casi si tratta di una protagonista femminile che ' trionfa ' alla fine per la sua intelligenza in un mondo controllato da maschi. Inoltre, ciò che conta non è il nome del personaggio quanto il ruolo che svolge nella trama22. Qual'è la caratteristica che distingue la figlia del Castellano (o contadina)? È la sua ingegnosità e intelligenza che si manifesta tramite la sua facondia. Questo ruolo è certamente ereditato da Madonna Oretta. Qual'è, parimente, la principale caratteristica della regina di Saba? Essa rappresenta un alto ceto sociale e un nome ben noto. E qui ancora Madonna Oretta, sposa ' gentile ' del notabile Geri Spina (era figlia del marchese Obizzo Malaspina), eredita anche questa caratteristica.
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Della novella di ' rags to riches ' non c'è nessuna traccia nel racconto decameroniano. Tuttavia, non è forse un'esagerazione ritenere la ' vittoria psicologica ' di Madonna Oretta un'analogia del ' trionfo sociale ' precedente. Quindi Madonna Oretta rappresenta la fusione delle due funzioni: intelligente castellana di pronto ingegno + nobile regina di Saba degna di stima. In modo del tutto analogo, l'anonimo cavaliere rappresenta la fusione del ' miles regis ' che parla in enigmi e l'ottuso ' sponsum '.
Vi sono ben otto «componenti» comuni alle due versioni:
1) Abbiamo a che fare con un VIAGGIO.
2) C'è il problema di alleggerire il TEDIO del viaggio.
3) Vi sono due personaggi principali (e un ' coro '): sono MASCHIO e FEMMINA.
4) La femmina TRIONFA, domina, è più intelligente.
5) La sua abilità si manifesta in GIOCHI VERBALI, battute, ecc.
6) Lei ha unNOME, viene identificata, associata a uno sfondo familiare.
7) Il maschio rimane ANONIMO.
8) Il maschio è un cavaliere o ARISTOCRATICO, cortigiano.
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Il processo che abbiamo tentato di rintracciare si potrebbe riassumere come segue. La metafora del cavallo della novella VI 1 deriva da un enigma riscontrabile in almeno un'opera anteriore al Boccaccio che gli era disponibile. Il Boccaccio, combinando questo enigma con la sua soluzione, ha creato un traslato piuttosto maldestro, ambiguo o almeno opaco sul quale ha poi edificato un'intera novella di pronta risposta. Ma questa metafora macchinosa, lontano dall'essere un espediente goffo dell'autore costituisce un elemento efficace nella caratterizzazione del cavaliere. Così la rappresentazione del cavaliere come maneggiatore maldestro di metafore e come narratore inetto è altrettanto coerente ed efficace quanto il disagio, l'intelligenza, la cortesia e lo spirito di Madonna Oretta. Ciò che conferisce a questa scena realismo, vitalità e umorismo degni del miglior Boccaccio è la descrizione culminante della ' reazione psicosomatica ' di Madonna Oretta. Questa novella con il peso che dà alla tecnica della narrazione
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e col ritratto del cavaliere come l'acme dell'eloquenza mancata, ha la funzione vitale nella struttura del Decameron di stabilire all'inizio della sesta giornata la bassa polarità dell'eloquenza come opposizione all'alta polarità rappresentata da Frate Cipolla nell'ultima novella della giornata. Dato questo ruolo, risulta chiaro ora perché il Boccaccio è stato indotto a prendere come punto di partenza un enigma o gioco di parole, dato che la novella è tutta costruita sul tema dell'abile uso delle parole per la narrazione e per battute spiritose.
Inoltre, un'analisi strutturale dimostra che ciò che costituisce la «fonte» della novella, nonostante le trasformazioni radicali subite dal materiale, è molto più della pietra basilare verbale; molti elementi della struttura originaria sono state conservate.
ALAN FREEDMAN
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Note:
1 Non compare nelle antologie del Russo, del Grabher, del Sapegno, ecc.
2 Le citazioni dal Decameron provengono dall'edizione Branca, Firenze, 1965.
3 È riprodotta nella Tavola XXVI dell'edizione Branca cit.; cfr. inoltre l'interessante nota sulle illustrazioni a pp. 1257-9 della stessa edizione. Anche G. ALMANSI (Lettura della novella di Madonna Oretta, in « Paragone », XXIII, 1972, n. 270, pp. 139-43; ID., The Writer as Liar: recensito in questo stesso vol. da Laura Momigliano Lepschy) crede che Oretta salga davvero su un cavallo.
4 «L'unico vaghissimo antecedente di questa novella... può essere additato nella CXXV del Novellino» (Decameron ed. Branca, cit., p. 703). Infatti nel Novellino si tratta di una novella che diventa noiosamente lunga, e senza fine; nemmeno si insiste sulla goffaggine del modo di raccontare, il protagonista viene caratterizzato come «grandissimo favellatore». Ecco per comodità del lettore l'intero breve testo. «Brigata di cavalieri cenavano una sera in una gran casa fiorentina, e avevavi un uomo di corte, il quale era grandissimo favellatore. Quando ebbero cenato, cominciò una novella che non venìa meno. Uno donzello della casa che servia, e forse non era troppo satollo, lo chiamò per nome, e disse - Quelli che t'insegnò cotesta novella, non la t'insegnò tutta. - Ed elli rispuose: - Perché no? - Ed elli rispuose: - Perché non t'insegnò la restata. - Onde quelli si vergognò, e ristette».
5 Cfr. i vocabolari del Battaglia, della Crusca, il DEI, ecc.
6 Secondo lo Scherillo (Decameron, Milano, 1924, p. 288) l'espressione del cavaliere sarebbe «una frase esemplata sul motto latino: Facundus in itinere comes pro vehiculo est'. Non è chiaro dove lo Scherillo abbia tratto questo motto latino, né perché abbia scelto questa particolare forma del detto. Vi sono diversi altri candidati:
Comes facundus in via pro vehiculo est.
Facundus est comes vie compendium.
Facetus comes in via pro vehiculo est.
Si sit facundus comes, est auriga iucundus.
Verbis facundi labor attenuatur eundi:
Qui cum facundo graditur, portatur eundo.
Mi sembra più probabile che questo concetto, evidentemente abbastanza comune nella letteratura classica, stia all'origine della tradizione enigmistica/ narrativa orientale e medievale che esamineremo più sotto.
7 L'esame meglio noto della tradizione narrativa associata a questo personaggio si trova nelle copiose annotazioni di Bolte e Polivka alle fiabe dei fratelli Grimm, Kinder und Hausmärcben (n. 94), vol. II, pp. 348-73, mentre il trattamento più esauriente e scientifico del motivo è quello del DE VRIES: Die Märchen von Klugen Rätsel lösern (FF Communications 73), Helsinki, 1928.
8 La sua esistenza (nato c. 1140) è documentata attraverso riferimenti («lo studioso Zabara») nelle opere del ben più noto Giuseppe Kimki di Narbona. Per Zabara e la sua opera si può consultare: per il testo ebraico, I. DAVIDSON, Sepher Shaashuim, A Book of Mediaeval Lore, New York, 1914; JOSEPH ZABARA, The Book of Delight, trad. M. Hadas, New York, 1960; e in italiano, A. RAVENNA, Letteratura ebraica post-biblica in Storia delle letterature d'Oriente, a c. di O. Botto, Milano, vol. I, p. 718.
9 Per un'ottima discussione dei rapporti fra le quindici novelle del Sefer auìm e la letteratura occidentale vedi l'Introduzione di MERRIAM SHERWOOD) alla traduzione di Moses Hadas cit. nella nota precedente. Lo Sherwood però, trascura completamente i rapporti fra la settima novella del Sefer e il Decameron, che abbiamo cercato di stabilire in questo articolo.
10 Cfr. S. S. THORBURN, Bannú or Our Afghan Frontier, Londra, 1876, p. 190.
11 Cfr. J. HINTON KNOWLES, Folktales of Kashmir, Londra, 1888, pp. 484-90.
12 Cfr. la nota 2 di p, 228.
13 Cfr. A. HILKA, Neue Beiträge zur Erzählungsliteratur des Mittetalters (die Compilatio Singularis Exemplorum der Hs. Tours 4681 ergänzt durch eine Schwesterhandscrift Bern 679) in «90. Jahresbericht der Schlesischen Gesellschaft für vaterland. Cultur», Breslau, 1913, pp. 1-24. Contiene (pp. 4-6) il testo del racconto Das schlaue Mädchen.
14 Focolare probabile di questa attività letteraria mi sembra la Francia meridionale o la Provenza dove nel Duecento fioriva una comunità ebraica che aveva stretti rapporti con la Spagna. Qui visse ad esempio Giuseppe Kimki, famoso grammatico ed esegeta e maestro di Zabara. La Compilatio sarebbe di origine francese (Cfr. L. DELISLE, in «Bibl. De lÈcole des Chartes», XXIXe Année, Paris, 1868, pp. 598-607).
15 È quasi certamente questa Compilatio (e non l'opera di Zabara come afferma il Langlois) a costituire lo spunto delle novelle III e VIII delle Nouvelles de Sens, cfr. E. LANGLOIS, Nouvelles Françaises du XV ieme siècle, Parigi, 1908, p. 49; ma cfr. anche pp, 13-14, 47.
16 Cfr. Novelle inedite di Giovanni Sercambi tratte dal cod. Trivulziano CXCIII per cura di R. Renier, Torino, 1889, pp. 22-31. Ma cfr. ora G. SERCAMBI, Novelle a cura di G. Sinicropi, Bari, 1972, vol. I, pp. 26-36.
17 Caratteristica è la scena dello smascheramento del maschio fra le donne di corte che dà adito nel Sercambi ad una specie di spogliarello en masse. Bisogna ammettere però che vi sono alcune aggiunte felici specialmente nella scena delle cortesi trattative per il ricevimento degli ambasciatori del re da parte del padre della contadinella. Su questa novella e le sue fonti cfr. R. KOEHLER, Illustrazioni comparative ad alcune novelle di G. Sercambi, in «Giorn. Stor. Lett. It.», XIV (1889), pp. 94-101.
18 Con questo non vogliamo suggerire una sostanziale affinità tra i due novellatori. Per la grande distanza che separa il mondo spirituale e le doti letterarie dei due scrittori v. per esempio le valide osservazioni di L. Rossi, Sercambi e Boccaccio, in «Studi sul Boccaccio», VI (1971), pp. 145-177.
19 Interessante a questo riguardo l'osservazione di A. Limentani a proposito delle fonti del Teseida: «È più difficile credere che la vicenda, almeno nel suo tracciato di massima, sia invenzione della fantasia boccacciana, che si muove prevalentemente in uno spazio «secondario» e suole segnare la sua sigla in un operato di riscatto ed elaborazione più che di creazione ex-nihilo». Cfr. Tutte le opere del Boccaccio a cura di V. Branca, Milano, 1964, vol. II, p. 234.
20 Cfr. I. CALVINO, Le fiabe italiane, Torino, 1956, p. 843 n. 62, per vedere come la «principessa enigmistica» si adatta perfettamente al mondo della fiaba. Nella fiaba del Figlio del Mercante di Milano è chiaro che troviamo elementi provenienti dalla tradizione medievale rimaneggiati, e in certi casi rovesciati, ma ancora riconoscibili.
21 Su questo aspetto della novella cfr. anche G. GETTO, Vita di forme e forme di vita nel Decameron, Torino, 1958, p. 140.
22 Cfr. V. PROPP, Morfologia della fiaba, Torino, 1969, pp. 102-103.