Prima di esaminare la nostra novella, sulla quale già altrove abbiamo detto qualcosa, alcune considerazioni sulla Giornata II. La quale, com'è noto, ha un tema esplicito, il "lieto fine", insieme tipicamenente "comico" (cattivo inizio ma favorevole conclusione) e popolare in senso stretto, anzi addirittura "fiabesco". Certo, la mancanza di tema nella prima giornata è giustificata dall'estemporaneità, per così dire, con la quale i novellatori son chiamati a dir la loro; eppure, permane per lo meno un'ombra di mancanza oggettiva di progetto, propria di un'opera in decollo ma non ancora librantesi su ali forti; si rimanda alle considerazioni che sulla stessa Giornata I abbiamo fatto qui. Anche nelle dimensioni la Giornata II si differenzia straordinariamente dalla precedente: è quasi tripla. Le stesse novità come argomenti: si muove pressoché intera nel mondo "moderno", almeno nella "storicizzazione" compiuta dal Boccaccio, il mondo romanzo prevalentemente mercantile e borghese. Anche se occorre ribadire che spesso si tratta di "storicizzazioni" più apparenti che reali, fatte spesso per offrire, dissimulando, trame di origine fiabesca (nei casi limite), almeno in cinque novelle, o leggendaria, sebbene di una leggenda corretta dal "lieto fine". Su queste strutture, e usiamo il termine nel suo valore obiettivo, ormai l'arte del narratore si dispiega in tutta la sua pienezza.
Non ci proponiamo di parlare di tutte le novelle e delle loro caratteristiche, anche solo schematicamente; quanto alle strutture fiabesche, che a nostro parere occupano tanta parte della Giornata
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(si vedano chiarissime le novelle 3 e 9; e, fra le altre, almeno sette mostrano tracce ben consistenti della fiaba di magia: si veda il nostro volume La fiaba di magia nella letteratura italiana), come esempio abbiamo questa volta scelto non la novella più vicina alla "semplicità" fiabesca (la terza, del giovine fiorentino che sposa la figlia del re d'Inghilterra), ma la penultima, quella di Bernabò e Ginevra, nella quale si fondono ampie vedute sul mondo mediterraneo, e romanzo (la novella, si sa, parte da Parigi), così caratteristico di tanta parte del Decameron. Prima di passare all'argomento principale, per la Giornata nel suo complesso diremo ancora che manca la novella propriamente fiorentina, non potendosi considerar tale quella del giovine usuriere sopra menzionata; non crediamo si debba attribuire un particolare significato a questo fatto, se non forse la difficoltà di unire la tal quale ristrettezza dell'ambiente municipale con l'"epicità" fiabesca. Ci pare opportuno anche ricordare che un'altra possibile ragione di "incompatibilità" fra le due caratteristiche in questione potrebbe consistere nella pericolosità del comico, qualità di molte novelle municipali, per la stessa e p i c i t à fiabesca.
Quanto alla novella da noi scelta, quella di Bernabò e Ginevra, recentemente un critico, facendo convergere la giornata, che egli considera una delle più ricche dell'opera, proprio sulla nostra novella nona, ne sottolinea l'impegno nel dibattito morale: contrasto fra virtù e passione, seppure, dobbiamo aggiungere, il solito Dioneo evita il sospetto di unilateralità raccontando una novella che è una difesa dei diritti della carne e della giovinezza, conculcati dalle convenzioni sociali. Lo stesso critico fa distinzione fra le prime cinque novelle, più abbandonate al giuoco del caso, e le restanti, nelle quali dominerebbe la virtù, si intenda nel significato premachiavellico di ingegno, industria (1). Io non dimenticherei troppo la parte svolta dalla Fortuna, con la quale del resto necessariamente deve contrastare l'ingegno: si tratta in massima parte di novelle di intreccio. E` vero che nella seconda metà della Giornata si ha "un gruppo tematico di particolare tensione e rilievo", ma proprio un passo della
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didascalia iniziale della nostra novella nona mostra l'attenzione dell'autore alla forza del caso (si ricordi il proverbio o la massima essere tipica premessa delle fiabe):
Suolsi tra' volgari spesse volte dire un cotal proverbio: che lo 'ngannatore rimase a pié dello 'ngannato; il quale non pare che per alcuna ragione si possa mostrare esser vero, se per gli accidenti che avvengono non si mostrasse.
Direi che il commento da fare a questo passo debba essere esattamente l'opposto di quello che vi fa il critico citato, per intendere lo spirito della novella e della Giornata, o almeno quella prevalente in questa seconda parte di essa. Secondo il critico suddetto, nel Boccaccio ci sarebbe solo malizia letteraria, tale da celare "un sotterraneo cinismo", analogo a quello della famosa citazione ariostesca della veridicità di Turpino, Orlando F., XXVI 23. Secondo me, nel passo citato si evidenzia invece l'incontro fra l'idealismo fiabesco, fiducioso e ottimistico, ingenuo e per dir così preterintenzionale, e un residuo pessimismo dell'esperto Boccaccio; il quale però si vuole giovanilmente o almeno umanamente abbandonare a questa illusione ideale, in tutte le novelle di questa giornata. Quanto all'analogia con l'Ariosto, io direi che occorre non avvicinar troppo due autori e due periodi lontani quasi due secoli, e quali secoli (lo stesso Almansi aveva compiuto prima un avvicinamento analogo fra Boccaccio e Machiavelli): l'esperienza storica ha sedimentato in Machiavelli e in Ariosto un pessimismo ed un'amarezza che non sono ancora nell'ottimistico Boccaccio. Si tratta di differenze di interpretazione che investono la sostanza, e non possono essere ridotte a semplici sfumature. Varrà la pena di citare il passo dell'Almansi, a mostrare l'orientamento della sua interpretazione, opposta a quella che noi avanziamo:
Boccaccio preferisce celare il suo sotterraneo cinismo sotto un velame stilistico di difficile e ambigua lettura. In questo modo egli sembra salvaguardare, da una parte la coerenza globale dell'opera, che rappresenta, nonostante la apparente frivolezza, un disperato appello per la causa comune del trionfo della virtù, sia pure virtù mondana e pervicacemente a-religiosa; dall'altra la sua onestà di intellettuale che vacilla fra una raffinata ironia e uno sconsolato cinismo. (Op. cit. p. 30).
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È` un passo questo che potrebbe valere come esempio e di interpretazione "astoricizzata" di un testo e di un autore intero, naturalmente non perché a sua volta un testo sia storicamente "datato" ("datata" ci pare invece proprio l'interpretazione dell'Almansi: si notino quegli aggettivi, sotterraneo, ambiguo, disperato, sconsolato, raffinato anche) e quindi riducibile a "documento di un'epoca e di un costume" ma perché il collegamento e la distinzione dei tempi "storici" aiutano a capire meglio la novità e la caratteristica peculiare, la sostanza genuina di un testo e di un'opera.
Della novella ci siamo già occupati brevemente (pp. 54-55 del volume citato), avvertendo come, almeno inizialmente, si tratti di un tema non del tutto coincidente con la fiaba di magia vera e propria, appunto quello della "scommessa", o, diremmo meglio, del "vanto", perlopiù sulle bellezze o la virtù di una donna, moglie o sorella (un racconto analogo si trova anche nel Cunto de li cunti); ma ben presto la vicenda prende un'allure decisamente fiabesca. Indicavamo forti analogie (o tracce) di essa in un cantare, Madonna Elena, al solito difficilmente databile come molti cantari; ma c'è anche un'altra redazione della storia, in una novella antica, stampata varie volte, dal Lami in poi, 1756, fino all'Almansi stesso (nel volumetto citato, nella trascrizione ottocentesca dello Zambrini). Di solito questa novella viene indicata come anteriore al Decameron: credo però che manchi ancora uno studio approfondito per poter affermare questo con sicurezza: non sarebbe la prima volta che il rapporto fosse a rovescio. Detta novella ha infatti molte analogie con quella del Decameron: si svolge all'inizio in Parigi, il giovane è genovese, e via col resto; anche se manca la storicizzizione precisa del Boccaccio, "fasulla", certo, per dir così, ma estremamente significativa e idealmente vera. Varrebbe la pena di riprendere il problema, studiando le redazioni italiane di questa novella, almeno le maggiori, il cantare di Madonna Elena, la novella del Boccaccio, e magari quella del Basile: ne potrebbe venir fuori un bello spaccato non tanto di "storia di un tema", come si faceva una volta, ma di "trasformazioni" di un tema fiabesco, e, nel nostro caso, di letteratura italiana narrativa tout court.
Il Boccaccio, come abbiamo detto, "storicizza", sì, con un intento di "razionalizzazione", con una veridicità certo non
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"documentaria", ma sostanziale, ma rispetta anche il modello fiabesco, nelle sue funzioni caratteristicbe, dal danneggiamento iniziale (preceduto e preparato da un antefatto, la discussione a Parigi, il "vanto", in sostanza) alla soluzione finale, che ha la sommaria crudele giustizia propria delle fiabe. Il nostro autore ammanta delle sue "trasformazioni" una vicenda presa a prestito, si tratti di una fiaba di magia vera e propria o di qualcosa di molto simile: ci sono infatti tutte le funzioni, sebbene, come abbiamo gia accennato, sia necessario, sempre al fine di mettere in moto "razionalmente" e con "verisimiglianza" la vicenda, un antefatto; senza dimenticare che la caratteristica di questo, il "vanto" della virtù di una moglie, mostri forse l'influsso di qualche altra "forma semplice", forse in direzione moralistica, di un probabile nucleo originario, dove il "vanto" delle bellezze di una sorella era solo una prova che il protagonista doveva affrontare: si veda la novella del Basile (2). Vediamo alcuni particolari di questa "trasformazione" storicizzante, prova essa stessa della fiducia con cui il Boccaccio ha accolto il materiale esistente.
Intanto, i due diversi ambienti, Parigi inizialmente, dove avviene il "vanto", ambiente notissimo in Italia e a Firenze, e del resto i mercanti non sono tutti italiani; il secondo è l'ampio mondo mediterraneo, vicino e lontano, non solo Alessandria d'Egitto, anch'essa assai nota ma già molto trasfigurata (nello stesso Boccaccio del Filocolo): nella novella anonima si tratta non del Soldano, ma del Gran Kan, forse sulla scia del Milione, e vi si tratta del "porto d'una terra" non meglio precisata.
Nel primo momento, l'antefatto, si ha non solo una "storicizzazione" geneticamente intonata, ma diremmo anche di carattere propriamente "culturale": si dibatte un tema assai alla moda sia nel Medioevo, vero e proprio, che nel Trecento (si pensi al Petrarca), e che poi sarà centrale anche nell'Umanesimo e nel Rinascimento (si pensi all'Ariosto), il tema della fedeltà femminile, anzi coniugale. In questa discussione si assiste anche alla creazione di un carattere, quello di Bernabò, il marito che crede, e non a torto, alla fedeltà della moglie, e che rimane disfatto quando gli vien detto della sua
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presunta infedeltà. Vorremmo fin da ora indicare anche in questo particolare, la fedeltà della donna, un punto di incontro fra il fiducioso ottimismo boccaccesco e l'idealismo fiabesco: diversamente orientate sono invece le cose nei racconti "moralizzati", anche di tipo leggendario-fiabesco, dove di solito la donna è infedele, e nei quali si dispiega un abbondante'prospettiva misogina; ne potremmo indicare degli esempi, anche letterari(3). Certo, il carattere del marito si perde, per dir così, per via, non è al centro dell'interesse del Boccaccio (altro punto di consonanza con le caratteristiche fiabesche, essendo una delle principali proprio la "semplicità" psicologica? ma non vogliamo strafare): ma è proprio questa la caratteristica dominante della novella. In essa, nella prima parte, un tema "attuale" serve a individuare un carattere, appunto quello del marito; la seconda parte invece pare più pienamente coinvolta nell'epica semplicità fiabesca, fino alle sue giustizie apparentemente sommarie e crudeli. Il saggio dell'Almansi vede con penetrante analisi le diverse caratteristiche delle diverse parti della novella, ma, non tenendo presente il modello fiabesco, non le può mettere in rapporto fra loro, né intenderne la genesi. Non ci pare infatti ci sia bisogno di scomodare Roland Barthes e le categorie del fonctionnel o dell'indiciel, "popolaresca" la prima, "intimista" la seconda. Nella nostra novella la prima parte, l'antefatto, ha certe caratteristiche, necessitanti di una maggiore individuazione del personaggio, con accentuazioni "culturali" e fino "teorizzanti" necessarie per chi si proponesse una accurata "storicizzazione" (come fa il Boccaccio, anche se per verisimiglianza si mantiene su toni elementari: si veda il fisofolo); la seconda, ripetiamo, fa prevalere l'intreccio, più adatto a mostrare il giuoco del Caso e dell'Ingegno. Volendo ricorrere ancora alla terminologia del Propp, prima accennata, potremmo anche ravvisare nella discussione sulle mogli e sul matrimonio una "trasformazione": ma il Boccaccio, per motivi che ormai risulteranno chiari, nella nostra prospettiva, da quanto fin qui detto, non va in quella direzione e nel corpo della novella la "funzionalità" fiabesca, con le sue necessità di azione e di
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movimento (di "verbi", o "predicati", non "sostantivi" o "aggettivi", per citare ancora il Propp) riprende il sopravvento.
Ma c'è da dire di più, sempre tenendo presenti le considerazioni dell'Almansi, che va dietro preferibilmente ai pezzi di "carattere" che trova in Bernabò: la parte sviluppata di più nella prima parte "caratterizzante" non ci pare nemmeno quella di Bernabò, ma il carattere di Ambrogiuolo, il quale come si sa sviluppa un suo lungo ragionamento (parr. 13-17 (4)) quello appunto che proprio a lui procura il nomignolo di fisofolo. In fondo Bernabò, nella sua pur simpatica ostinazione, non fa altro che svolgere la sua funzione, quella di sostenere il vanto, molla necessaria a mettere in movimento l'azione: tanto è vero che egli si appella ai fatti, non alle parole, secondo la migliore tradizione della fiaba (par. 21). E della migliore tradizione fiabesca, niente affatto "veristica" (non vogliamo usare il termine "realistico", così abusato che non si sa più ormai cosa voglia dire), è il prezzo che egli butta sulla bilancia, la sua testa, sebbene Ambrogiuolo lo induca a patti più miti (e insieme più... convenienti). Questo fa parte della "razionalizzazione" fiabesca, come tutto pregno di particolari "storicizzanti" è il par. 23, quello del patto, che si configura come un vero e proprio contratto. Da questo punto in avanti comincia la parte propriamente avventurosa in senso fiabesco, con prevalenza, almeno apparente, per dirla col Barthes, del fonctionnel; en passant, le divagazioni dell'Almansi su Ginevra donna-uomo pertengono assai poco al testo e alle intenzioni dell'autore, derivando invece dalla solita origine psicologico-modernistica del critico, per dir così. Ammettiamo pure che il Boccaccio abbia trovato una sua linea mediana fra fonclionnel e indiciel: quello che conta è lo spiegare
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la genesi di una tale situazione, e in questo il ricorso alla "fonte" fiabesca ci pare assolutamente positivo, diremmo inevitabile.
Quanto al personaggio di Ginevra, l'Almansi (che ormai prendiamo come spunto) continua con la sua prospettiva del personaggio donna-uomo, adducendo addirittura il suo comportamento pratico maschile-mercantile, quasi un'usurpazione di prerogative altrui (5); ancora una volta bisogna dire che l'importante non è questo, trattandosi proprio del comportamento "prevedibile" e "obbligato" del protagonista f i a b e s c o: il suddetto critico, che pure usa così spesso questo aggettivo, non si accorge della chiave che esso nasconde e lo svaluta genericizzandolo: la donna difatti non è un eroe, categoria inesistente nella fiaba, ma solo un protagonista. Così, l'insistenza descrittiva sul travestimento, non è altro che l'abbondanza nesessaria per una "trasformazione" in direzione razionalizzante, come è quella boccaccesca: nella fiaba, si sa, questi atti avvenivano in un lampo, per forza di magia; della rapidità fiabesca il Boccaccio si serve per la successiva carriera della donna-uomo col sultano, condensata in due righe. Inutile quindi dilungarsi sulla ambiguità sessuale della protagonista stessa; come nel caso di Giletta di Narbona (usurpatrice delle funzioni e della professione di un uomo, il padre), portato per analogia dall'Almansi, la superiorità della donna non è conquistata mediante l'usurpazione di un'arte (e di una apparenza) maschile, ma è imposta dal ruolo di protagonista che essa deve assumere: lei, non Bernabò, Ambrogiuolo essendo inequivocabilmente l'antagonista.
Nella parte finale, le considerazioni che l'Almansi fa su Ambrogiuolo confermano quanto abbiamo detto fin qui: se non si ricorre alla chiave interpretativa del pattern fiabesco, non si capisce la struttura della novella (6). Della quale più cose si potrebbero ancora dire, sul modo come appunto di Boccaccio rielabora ("trasforma"),
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il tema fiabesco: particolarmente utile sarebbe un confronto analitico con la novella anonima (nella direzione del solito rapporto genio non-genio coi materiali fiabeschi, rapporto di cui discutevamo nel nostro volume prima citato). Ci contentiamo però di elencare, un po' a caso, altri particolari, alcuni nella linea della "razionalizzazione", altri in quella della conservazione delle caratteristiche prettamente fiabesche. Sulla linea della prima, il far dormire una fanciulletta con la donna, nell'assenza del marito, che si si richiama all'uso del tempo (e non solo del tempo), e insieme potrebbe costituire anche una giustificazione per il modo con cui Ambrogiuolo supera la tentazione sensuale, di cui si parla alla fine del par. 27: o meglio, un modo di "suggerire" al lettore perché Boccaccio non segue, nella persona di Ambrogiuolo, la direzione "boccaccesca": essa avrebbe sconvolto e scardinato completamente la struttura fiabesca, sostituendola o col c o m i c o o col t r a g i c o, ambedue tutt'altra cosa. Sulla linea fiabesca, il particolare delle tre notti passate nella camera, non solo del tutto contro verisimiglianza, ma anche non necessario, poiché tutto era stato visto da Ambrogiuolo, e raccolto, quanto agli oggetti- prova, la prima notte: non si vede proprio perché, essendosi procurato tutto la prima notte, "in questa maniera fece due notti senza che la donna di niente s'accorgesse", par. 28. La novella anonima, insieme adattandosi alla più grossa pasta dei suoi ascoltatori, e per una forma di elementare "verismo", si cura di particolari insignificanti, dei quali la superiore "verisimiglianza" boccaccesca aveva taciuto: nella cassa il tentatore si porta da mangiare!
Ritorniamo un momento sull'antefatto, il "vanto", che non ci pare parte sostanziale della fiaba, ma "razionalizzazione" del danneggiamento, o meglio, della sua preparazione, una "trasformazione" cioè della semplicità originaria: così, la fiaba vera e propria comincia dopo, quando il protagonista infrange qualche tabù o dettato o regola, procurandosi appunto una punizione, per cui si mette in cammino alla ricerca dei mezzi per eliminarla. Il marito, Bernabò, ove volessimo ricostruire una fiaba nella sua interezza,
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cosa non strettamente necessaria, sarebbe il custode del tabù, il datore della prescrizione; nella figura di Ambrogiuolo potrebbe vedersi, come spesso accade, anche la sovrapposizione di funzioni, non solo l'antagonista, ma anche l'aiutante, almeno in parte, quando con gli oggetti donneschi sottratti nella camera completa il riconoscimento e la conseguente riabilitazione. Ma la parte dell'antagonista è prevalente: là dove Ambrogiuolo, mentendo, accusa la donna di adulterio, fa la parte del falso eroe, che usurpa gli atti compiuti dall'eroe (o protagonista, come preferiremmo dire). Anche la scena della ricostruzione della vicenda, davanti al Soldano, mediante la quale si svela la menzogna di Ambrogiuolo, ha le stesse caratteristiche: il comportamento da "vantone" di Ambrogiuolo non va interpretato come una pennellata "caratteriale", ma come una serie di atti obbligati per lo svolgimento della propria "parte".
All'inizio della novella seguente c'è un breve corollario, con una delle uscite più beffarde di Dioneo: egli sulle mogli la pensa come Ambrogiuolo, e non dà loro neanche torto, se pensano a consolare la loro solitudine; tanto è vero, che lui narrerà invece la storia di una donna "accorta" a procurare il suo vantaggio, e non "onesta" come Zinevra, mutando proposito proprio perché indottovi, per antitesi, dall'"idealismo" della novella di Zinevra e dalla sua onestà. Un'uscita che richiama e anticipa quella sulla novella di Griselda: solo che là la posizione di Dioneo sarà estremamente ambigua, perché egli era anche il narratore, poiché l'esigenza teorica e stilistica della giornata conclusiva non gli consentiva la consueta via d'uscita nell'eccezione alla norma. Il giuoco fra attore, narratore, autore è uno dei problemi decameroniani ancora meno studiati, non vogliamo dire approfonditi, e questo del comportamento di Dioneo è uno dei punti limite, al rischio quasi della rottura, addirittura del cinismo di cui parlava l'Almansi. Ma noi diremo anche che il "lieto fine" di tipo fiabesco, cui nel nostro caso è strettamente connessa la vicenda e la virtù di Ginevra, è proprio ciò che aiuta, in particolare, il Boccaccio a superate le tentazioni "boccaccesche", alle quali invece altrove darà libero corso; sebbene anche in queste prime giornate egli si mostri già capace di dar loro sfogo, come mostra per esempio in questa stessa giornata la novella del Paternostro di San Giuliano, la seconda, quella di
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Rinaldo d'Asti. Ma l`intervento di Dioneo ci pare conforti la nostra tesi: nel suo impatto con la fiaba il Boccaccio, più o meno intenzionalmente e consapevolmente, ma certo per la forza della struttura fiabesca stessa, si deve uniformare alle leggi di quella. Del resto, occorre avvertirlo ancora una volta, la vena seria (non vogliamo dire quella "lagrimosa") non gli era aliena, tutt'altro.
A uno sguardo d'insieme, anche proprio (con tutte le altre) l'ultima novella, quella raccontata dal solito Dioneo (nella quale c'è l'avventura del povero giudice pisano Riccardo di Chinzica, che credeva, lui vecchio, di poter mantenere, in tutti i sensi, moglie bella e giovane), può esser messa non solo sotto il segno del lieto fine, ma anche sotto quello dell'ottimismo fiabesco: nella novella di Riccardo di Chinzica si potrebbe ravvisare la novella dell'Orco. Ma non occorre andar tanto avanti, tendendo fino a questo punto la ricerca di coerenza all'interno della nostra Giornata; accontentiamoci del lieto fine, si intende per la moglie, la vera protagonista, mentre il vecchio marito, avendo violato le leggi della natura, paga il fio di questa sua colpa, come, pur in mezzo a lepidezze, afferma Dioneo, riprendendo una delle fondamentali idee ispiratrici dell'intera opera. La massima relativa è ripetutamente enunciata dalla donna: "che voi dovavate vedere che io era giovane e fresca e gagliarda, e per conseguente congnoscere quello che alle giovani donne... si richiede"; "Iddio, così pietoso raguardatore della mia giovinezza"; "Del mio onore... fosserne stati (teneri) i parenti miei quando mi diedero a voi!": tanto è vero che lo stesso interessato messer Riccardo conosce la sua follia d'aver preso moglie superiore alle sue possibilità. La donna è stata una malmaritata, è lei che ha subito la violenza, naturale e anche sociale (i parenti), col solito motivo dell'antagonismo fra ricchezza e amore; e il suo preferir Paganino è la giusta pena per coloro che hanno errato, compreso il marito. Tutta la questione è dibattuta in ampi discorsi, benché, come era inevitabile in tal materia, di antichissima tradizione, conditi di molte lepidezze e doppi sensi. Si noti anche come il libertino Boccaccio si preoccupi di regolarizzare la posizione della donna, facendola sposare dal corsaro; probabile giustificazione, le nozze non consumate col precedente vecchio marito.
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Crediamo di avere, in questo e in altri saggi, messo suficientemente in luce il significato complesso ma chiaro che l'assunzione di strutture fiabesche significhi per il Boccaccio: un dare e un avere su un piano di oggettiva parità, con due partners, per dir così, rispettivamente consapevoli, mi si passi la forte metafora, del reciproco valore. Per forza di cose però, nel momento in cui si sottolinea un certo aspetto della composizione boccacciana, appunto il suo rapporto col pattern fiabesco, inevitabilmente si sottintende l'apporto del genio individuale, non tanto in quel processo di assunzione, di cui abbiamo detto, ma nei particolari più propri del genio stesso. Per esempio, nel nostro caso, la parte dovuta all'ingegno: come è presente essa? come si lega alla "coercizione" del percorso obbligato del modulo fiabesco, alla sua "prevedibilità"? È chiaro che il personaggio-chiave in questo senso è la donna, Ginevra: proprio perché non siamo su un piano "comico", le iniziative di Ambrogiuolo per procurarsi le false prove non hanno rilievo sostanziale: del resto, lo stesso autore se ne sbriga abbastanza rapidamente, risolvendo nel modo più ovvio, con denari, la difficoltà: ad Ambrogiuolo, informatosi dei costumi della donna, vien da disperare, ché "gli parve matta impresa aver fatta!":
Ma pure, accontatosi con una povera femmina che molto nella casa usava e a cui la donna voleva gran bene, non potendola a altro inducere, con denari la corruppe e a lei in una cassa artificiata a suo modo si fece portare non solamente nella casa ma nella camera della gentil donna.
E` la rapida traduzione del mezzo magico ( per entrare nella torre, dove è stata chiusa la principessa: si pensi allo stesso Filocolo, dove peraltro il mezzo magico è già razionalizzato, ma non fino a questo punto!) nel più corrente strumento di apertura, il denaro.
Ma veniamo a Ginevra. Essa, pur disperata, sa parlare col servo: poi, pure trista e sconsolata, usa al meglio dei panni da lui lasciatile: poi, si pone come marinaro al servizio del Catalano, e, giunta alla corte del Soldano, rapidamente ne acquista la grazia col suo bene adoperare, poi bene e sollecitamente svolge il nuovo ufficio di signore e capitano dei mercanti e della mercanzia. Sempre riscontriamo la sicura sommarietà del procedere fiabesco; in certi tratti però rotto e arricchito da osservazioni, rapide
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pennellate, di approfondimento circostanziale, come quando Sicurano (così si chiama nei nuovi panni Ginevra) vedendo ridere Ambrogiuolo capitato dalle sue parti, sospetta "non costui in alcuno atto l'avesse raffigurata", ma pure fa fermo viso, e sa cogliere accortamente l'occasione, ricostruendo fulmineamente l'accaduto ("prestamente comprese qual fosse la cagione del'ira di Bernabò verso lei e manifestamente conobbe esser costui di tutto il suo male esser cagione"), altrettanto fulmineamente risolve "di non lasciargliene portare impunità". D'ora in avanti il comportamento di Ginevra-Sicurano è più articolato, più "realistico", o meglio, circostanziale, coinvolgendo lo stesso soldano. Si noti l'altra pennellata psicologica, su Ambrogiuolo che chiesto di confessione più che dalla severità del Soldano è spaventato da quella di Sicurano, proprio perché in lui prima "più aveva fidanza"; cui poco dopo segue per Bernabò un'altra di carattere diverso, però pregevole come "razionalizzazione" dell'ordine a suo tempo dato da Bernabò di uccidere la presunta adultera: egli dichiara al soldano che a ciò si era indotto non solo per vendicare il suo onore, ma anche "vinto dall'ira della perdita dei suoi denari". Ma questo è il meno, quanto ad arricchimento della vicenda dovuto al genio individuale del narratore, anche sul piano che il Barthes chiamerebbe indiciel: da non perdere è il discorso della donna al soldano, aceto e fiele non solo per Ambrogiuolo, ma per lo stesso marito; cioè, ancora una volta, una difesa del valore individuale oppresso dal costume:
Signor mio, assai chiaramente potete conoscere quanto quella buona donna gloriar si possa d'amante e di marito: ché l'amante a un'ora lei priva d'onor con bugie guastando la fama sua e diserta il marito di lei: e il marito, più credulo alle altrui falsità che alla verità da lui per lunga esperienza potuta conoscere, la fa uccidere e mangiare a` lupi: e oltre a questo, è tanto il bene e l`amore che l`amico e il marito le porta, che, con lei lungamente dimorati, niun la conosce.
Che, sia detto en passant, è anche una bellissima intuizione per razionalizzare la pretesa non riconoscibilità della donna, dato che qui essa non poteva esser prodotta da magiche trasformazioni radicali. Della stessa finezza il tratto con cui poco dopo, nella scena madre davanti al soldano, della sua vera identità Ginevra-Sicurano recupera la voce non
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solo, ma la tenerezza femminile:
Fatta adunque la concessione dal soldano a Sicurano, esso, piagnendo e inginocchion dinanzi al soldano gittatosi, quasi a un'ora la maschil voce e il più non volere maschio parere si partì...
E la nuova vestizione di Ginevra che segue è anch'essa una "trasformazione" della funzione fiabesca appunto della "trasformazione" (si scusi il bisticcio: lo stesso termine in due significati diversi); ma come anch'essa è ora collegata non all'astratto, seppure epicamente astratto, pattern fiabesco, ma al nuovo contenuto ideale di marca boccaccesca:
Ma poi, pur che la maraviglia cessò, la verità conoscendo, con somma laude la vita e la constanzia e i costumi e la virtù_ della Ginevra... commendò.
Non ce n'è a sufficienza (siamo appena all'inizio dell'opera ... ) per l'apporto del genio individuale? Perciò, crediamo di poterci tranquillamente permettere un ritorno ai particolari fiabeschi: questa volta in un punto capitale, il finale. Si noti: promozione, mediante arricchimento, quasi nuove nozze, mediante la riunione col marito, congedo dal benefattorc-aiutante, punizione dell'antagonista, ritorno nel paese reale dal paese fiabesco rappresentato dalla corte del Soldano. Ce ne vuole di più? Non crediamo.
(1) G. ALMANSi, Lettura della novella di Bernabò e Zinevra, prima in "Studi sul Boccaccio", 1973, poi in Il ciclo della scominessa, Roma 1976
(2) G.B. BASILE, Lo cunto de li cunti, a cura di M. Petrini, Bari 1976.
(3) Si tenga presente per es. il tema afferente die "perfetti amici" Amico e Arnelio, con mogli tutt'altro che virtuose, nel Sercambi, o nello Straparola.
(4) Piuttosto tradizionale, sulla inferiorità delle donne, meno "perfette" dell'uomo, e più "mobili", caratteristiche probabilmente accentuate ad arte dall'autore, in quella sede e in quel personaggio; infatti, sebbene il Boccaccio possa esser d'accordo sulla maggior "morbidezza" del femminil genere, nell'ultima parte della novella lo vedremo rappresentate in tutt'altro modo proprio Ginevra, la cui superiorità sul sesso forte in fermezza e costanza è polemicamente ed esplicitamente accentuata. Non senza che, con una delle solite pennellate di moderna psicologia, nella tenerezza della donna il Boccaccio non recuperi anche la dimensione più "umana" della protagonista.
(5) Si veda ALMANSI, Op. cil., pp. 39-41.
(6) Pp. 41-43. La spiegazione delle oscillazioni del personaggio sta proprio nel giuoco fra il percorso "obbligato" (la famosa "pevedibilità tematica" del Propp) della vicenda fiabesca e il realismo di tendenza del Boccaccio. L'Almansi aveva intravisto, senza svilupparla e comprenderne il significato, questa caratteristica (che del resto non è solo di questa novella): " La novella quindi, che si apre sul registro di una eccessiva familiarità di racconto (la cena dei commessi viaggiatori all'hotel Roma), si chiude nell'atmosfera irreale alla corte di un re orientale; e questo passaggio dalla realtà al sogno, dall'icasticità alla fantasticità, mi sembra far parte di un repertorio stilistico consueto al Boccaccio maggiore", op. cit., p. 41.
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A p p e n d i c e
IL CANTARE DI MADONNA ELENA
Qualche parola su questo cantare, pubblicato dal Levi (su un testo del Targioni Tozzetti, 1880, Pisa) nella sua nota raccolta Fiore di leggende. Contrariamente ad altri casi (quello della novella anonima per questa stessa del Decameron, per esempio, o Gerbino) sembra proprio che fra i due non ci sia rapporto. L'ambiente del Cantare di Madonna Elelna del tutto convenzionale, il mondo fantastico di una feudalità leggendaria. Inoltre, il "vanto" prima e delle bellezze della donna, poi si muta, per le accuse del malvagio cavaliere Guernieri, in vanto dell'onestà; anzi, qui la donna sarebbe già stata posseduta dal suddetto accusatore. Altro particolare diverso, la proposta di Carlomagno di risolvere la questione col solito duello giudizio di Dio; ma l'accusatore promette di portar le prove, gioie e veli della donna, Carlo prende come pegni i tre figlioletti del malvagio cavaliere, al quale pare di rimaner matto, ciò di aver lo scacco, la peggio (il Boccaccio invece dice, "e gli parve matta impresa aver fatta": espressione che forse puù aver qualche collegamento con quella propria presa dal giuoco degli scacchi, ma che non ci pare implicar rapporto fra i due testi, anzi). Il malvagio Guernieri è alla disperazione: fa prove di valore sotto il castello della bella Elena, non si capisce bene se sia guerra o torneo; infine corrompe una donzella, promettendole di sposarla, se gli fornirà informazioni sull'interno del castello e oggetti di proprietà di Elena. La descrizione
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del castello, con animali fatati e gli stessi due figli di Elena è una evidente trasformazione (confusionaria, senza alcuna "razionalizzazione") delle "prove difficili" della fiaba (fra gli animali oltre a due leoni vi sono due dragoni, il terzo animale è una cagnetta, che abbaia quando c'e bisogno di difesa); la stessa bella Elena pare proprio la bella reclusa nella torre. Il marito, convinto della colpevolezza, fa strage al suo castello, e butta la moglie dalla finestra in un fiume, "credendo ch'anegasse veramente"; uccide anche i due figliuoli. Ma Elena si salva, e con l'aiuto del padre va a Parigi, dove sfida il traditore, mettendosi ella stessa in campo armata.
Il procedimento del cantare è tipicamente popolaresco: a parte la poca verisimiglianza di questi procedimenti, grande sviluppo hanno le parlate dei personaggi, del tutto convenzionali e declamatorie, senza nessun'altra funzione o caratteristica, né fonctionel né indiciel. Dello stesso tipo i particolari insistiti del duello, e le punizioni sommarie dello stesso Guernieri e della cameriera. Si delinea anche un personaggio tipicamente fiabesco, sia nelle sue connotazioni "dinastiche", sia nei suoi connotati di onnipotente, il padre della stessa Elena, che prima minaccia di far vendetta sullo stesso Carlomagno, poi fa di nuovo sposare la donna col marito! Evidente "trasformazione", assai goffa in verità, della nota tappa fiabesca delle nozze; far risuscitare i figli sarebbe stato troppo, e ci si contenta di dire, poiché "più bella coppia non si vide mai", "ancor potrete aver figliuoli assai".
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