Il motto di spirito

La forza trasformatoria del motto di spirito è illustrata in particolare nella quarta novella della giornata VI (DECAMERON, 1992, p.730):

Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con presta parola a sua salute l’ira di Currado volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.

Testaferri analizza la quarta novella e centra l’attenzione sull’effetto comico in generale, soprattutto sul motto di spirito, visto quest’ultimo come una manifestazione particolare del comico. Chiarisce l’effetto e il carattere del motto di spirito (TESTAFERRI, 1991):

[...] Boccaccio coglie alcune delle più importanti caratteristiche del motto di spirito, vale a ire: il suo essere un fenomeno verbale, il suo essere improvviso e, infine, la sua capacità di risolvere una situazione difficile. Questa definizione del motto di spirito, seppure indirettamente dataci dal Boccaccio, non si differenzia troppo dalla teoria freudiana del Witz in generale e del motto di spirito in particolare.

Il motto di spirito, lo strumento di salvezza per il protagonista, ha una lunga tradizione nel comico, cioè nella comunicazione spiritosa.

Storicamente la ricerca sul comico in generale si è articolata in maniera bipolare, e il comico è stato visto o come fenomeno eminentemente psicologico o come fenomeno sostanzialmente artistico. Platone parla nel Filebo di una mescolanza di dolore e piacere ambedue elementi inerenti tanto al tragico quanto al comico, o più propriamente al ridicolo. Il dialogo platonico considera il riso come prodotto di una situazione psicologica particolare.

Aristotele, invece, vede nel comico un fenomeno tipicamente artistico che è propriamente inerente alla commedia. La commedia nello studio dei generi è da lui vista come imitazione di ciò che è basso. Quindi Aristotele definisce il comico come difetto o bruttezza da cui non si genera né dolore, né distruzione. Cicerone riprende sostanzialmente la definizione aristotelica, ma, interessandosi al comico all’interno del discorso epidittico, concentra la sua analisi sul rapporto tra oratore e pubblico, vale a dire tra emittente dell’espressione comica e ricevente. Raccomanda di operare una disgiunzione netta tra soggetto e oggetto con prudenza e suggerisce all’oratore di rispettare i sentimenti degli ascoltatori. Nell’analisi di Cicerone è inoltre importante la relazione tra senso di attesa e sorpresa. Il riso sarebbe infatti generato se, aspettandoci una cosa, ce ne viene detta un’altra. Queste definizioni del comico circolavano più o meno liberamente ai tempi del Boccaccio. Il fenomeno del comico è stato trascurato nei secoli successivi e si deve pertanto arrivare a Freud perché l’indirizzo bipolare dato al comico si risolva. Nella sua teoria del Witz è previsto per prima cosa un certo dosaggio di aggressività che, ovviamente, si manifesterà in gradazioni appropriate ai singoli casi e, secondariamente, il riso stesso viene visto come momento conciliatore che libera sia dall’ostilità repressa che da altre possibili inibizioni.

Freud ha studiato il movente interno del motto di spirito e la sua apparenza esterna (FREUD, gesammelte Werke, 1958):

Attività, relazione con il contenuto dei nostri pensieri, carattere di giudizio giocoso, accostamento di elementi dissimili, contrasto di rappresentazione, ‘senso dell’assurdo’, il succedersi di stupore e di illuminazione, rivelazione di ciò che è celato, e la peculiare concisione sono le caratteristiche del motto di spirito.

Freud, ascrivendo queste caratteristiche in larga parte a Jean Paul, ritiene che le singole definizioni non disegnano un tutto organico.

Rileva Jean Paul (CAMBI, 1993, p.7):

Arguzia e umorismo si richiamano vicendevolmente nella comune strategia di delineare nel flusso narrativo la disposizione dell’animo umano, affettiva, cognitiva e comunicabile, a far argine difensivo contro i mali e i pericoli che ci affliggono. Il Witz, come arma di difesa ?carica di umorismo, un collante trasparente condito di amenità e stravaganze, usato per ricucire fratture e corpi separati, gravita in un universo ideologico e psicologico che parrebbe oscurare le singole e fulminee costellazioni retorico-stilistiche e non differenziare ?le singole figure come quelle dell’antitesi, del controsenso e del gioco etimologico-linguistico esasperato.

Questa definizione di Jean Paul spiega esattamente l’effetto terapeutico-reconciliante tra Chichibio e il suo padrone tramite un motto di spirito, che si propone come arma di difesa. Jean Paul rileva in primo luogo il carattere comparativo del motto di spirito, costruito sulla combinazione di due immagini o rappresentazioni dal cui contatto non consegue tanto una filiazione, quanto una Wundergeburt, - una nascita prodigiosa ed esponenziale rispetto alle matrici - che non discende per derivazione meccanica o convenzionale, ma si sviluppa come libero prodotto di un io creatore (Chichibio). In più, Jean Paul dichiara (CAMBI, 1993, p.18):

Una trovata di spirito è una liberazione di materie spiritose [comiche], le quali prima dell’improvvisa separazione dovevano essere intimamente combinate. L’immaginazione ha bisogno di venir prima saturata con ogni sorte di vita perché venga il momento di elettrizzarla mediante la frizione della libera socialità, cosicché la reazione provocata dal più leve contatto, positivo o negativo, possa trarne sfolgoranti scintille, raggi luminosi o colpi detonanti.

Jean Paul mette in rilievo l’improvvisazione del motto di spirito, la rapidità della sua formazione emblematicamente raffigurata nella novella di Currado e Chichibio.