LA TRADIZIONE DELL'"AEGRITUDO AMORIS"

NEL "DECAMERON"

 

La novella del conte d'Anguersa (II, 8) propone per la prima volta nel Decameron uno dei topoi letterari più cari alla cultura medievale, quello della aegritudo amoris. La vicenda dell'innamoramento di Giachetto segue infatti una linea di sviluppo convenzionale secondo i canoni della tradizione letteraria della malattia d'amore:

[Giachetto]... avendo forse sei anni più che la Giannetta e lei veggendo bellissima e graziosa, sì forte di lei s'innamorò, che più avanti di lei non vedeva. E per ciò che egli imaginava lei di bassa condizion dover essere, non solamente non ardiva addomandarla al padre e alla madre per moglie, ma temendo non fosse ripreso che bassamente si fosse ad amar messo, quanto poteva il suo amore teneva nascoso. Per la qual cosa troppo più che se palesato l'avesse lo stimolava; laonde avvenne che per soverchio di noia egli infermò, e gravemente (Dec. II, 8, 41-42). (1)

I medici chiamati al suo capezzale non riescono a determinare le cause della malattia, finché uno " ... assai giovane, ma in scienzia profondo molto..." (Dec. II, 8, 44) gli tasta il polso proprio nell'istante in cui Giannetta sta entrando nella stanza ove egli giace ammalato.

La quale come il giovane vide, senza alcuna parola o atto fare, sentì con più forza nel cuore l'amoroso ardore, per che il polso più forte cominciò a battergli che l'usato: il che il medico sentì incontanente e meravigliossi, e stette cheto per vedere quanto questo battimento dovesse durare. Come la Giannetta uscì della camera, e il battimento ristette; per che parve al medico avere della cagione della infermità del giovane; e stato alquanto, quasi d'alcuna a volesse la Giannetta addomandare, sempre tenendo per lo braccio lo ‘nfermo, la si fé chiamare. Al quale ella venne incontanente; nè prima nella a entrò che ‘l battimento del polso ritornò al giovane, e lei partita, cessò (Dec. II, 8, 45-46).

La reazione fisiologica suggerisce al medico la diagnosi delle cause psicologiche della malattia; il solo modo di curare l'aegritudo di Giachetto sarà pertanto l'appagamento della sua passione. Il medico dice ai genitori del giovane:

"La sanità del vostro figliuolo non è nello aiuto de' medici, ma nelle della Giannetta dimora, la quale, sì come io ho manifestamente per certi segni conosciuto, il giovane focosamente ama, come che ella non se ne accorgre, per quello che io vegga. Sapete omai che a fare v'avete, se la sua vita v’è cara (Dec. II, 8, 47).

La storia d'amore dei due giovani costituisce un breve episodio autonomo all'interno del racconto più complesso delle vicende del conte d'Anguersa. L'episodio però non ha trovato molto consenso tra i critici, e la novella stessa lascia la brigata dei novellatori piuttosto fredda (2) . La novella ha tutti i crismi di un exemplum morale, marcato a tal punto però da interrompere lo stesso ritmo narrativo (sia della novella che della giornata), come ci viene confermato da una lettura complessiva. L'episodio dell'amore di Giachetto in particolare è l’anatomia di una storia d'amore che Boccaccio ci offre capovolgendo i termini normali del processo: egli non segue lo sviluppo psicologico della passione del giovane per giungere agli eventuali effetti fisiologici, a quel momento cioè di estrema tensione psicologica che precede la rivelazione di questo male, come nel caso di Fedra, ma impiega il cammino a ritroso, cioè, partendo dai processi sornatici, ritorna alle cause psichiche che li hanno occasionati. Tutto però è detto fin dall'inizio, e il tracciato della vicenda segue linee di sviluppo geometriche, secondo certi schemi già dati (Valerio Massimo, Plutarco, ecc.) che l'autore accetta tout-court: il passo ha la fredda consistenza di un carme bucolico rinascimentale. La storia di Giachetto acquista valore se considerata quale "episodio letterario", momento fondamentale di quella sperimentazione narrativa sul tema della aegritudo amoris che raggiunge il suo momento poetico più maturo nelle novelle di Girolamo e Salvestra, del Re Pietro e di Lisabetta (mentre si possono ritrovare tracce marginali del tema in novelle centrate su un problema diverso, quali quelle di Federigo degli Alberighi e di Paganino da Monaco).

Nella novella di Girolamo e Salvestra (IV, 8) il tema della malattia d'amore costituisce il tessuto connettivo della intera vicenda. La novella ci presenta sin dall'inizio una situazione fatale che deve precipitare nella morte del protagonista: l'amore disperato di Girolamo è socialmente inaccettabile, e la mancata corrispondenza deve inevitabilmente causare la sua morte. Nell'istante in cui Girolamo si rende conto che il suo amore è senza più speranza, egli sente che anche la sua vita non ha più ragione d'essere, in quanto tutto il suo essere è in funzione di quell'amore; perciò alle parole di Salvestra,

... il giovane ... sentì noioso dolore; e ricordatole il passato tempo e 'l suo amore mai per distanzia non menomato, e molti prieghi e promesse grandissime mescolate, niuna cosa ottenne. Per che, disideroso di morire, ultimamente la pregà che in merito di tanto amore ella sofferisse che egli allato a lei si coricasse... Coricossi adunque il giovane allato a lei senza toccarla: e raccolto in un pensiere il lungo amor portatole e la presente durezza di lei e la perduta speranza, diliberò di più non vivere; e ristretti in sé gli spiriti, senza alcun motto fare, chiuse le pugna, allato a lei si morì (Dec. IV, 8, 21-23).

Morte eccentrica in rapporto a una tradizione di realismo narrativo, ma esemplare se considerata in funzione del topos.

A questo punto dobbiamo considerare una duplice catena di eventi necessariamente collegati che determinano il comportamento del protagonista. Da una parte abbiamo una catena di eventi narrativi: l'esistenza del personaggio Salvestra è condizionato dall'esistenza del personaggio Girolamo, e deve in qualche modo seguirne le sorti; dall'altra parte abbiamo una fatale legge d'amore (alias, scientifica, secondo la tradizione medica medievale), che fa sì che Salvestra, che aveva dimenticato il giovane in vita, senta alla vista del "viso morto" risvegliarsi "le antiche fiamme" d'amore, e "...mandato fuori un altissimo strido, sopra il morto giovane si gittò col suo viso, il quale non bagnò di molte lagrime, per ciò che prima nol toccò che, come al giovane il dolore la vita aveva tolta, così a costei tolse" (Dec. IV, 8, 32).

Il dolore che toglie la vita a Girolamo ed a Salvestra non differisce sostanzialmente dal mal d'amore che conduce Giachetto in fin di vita, ma nella novella della quarta giornata Boccaccio affronta il medesimo topos in modo molto più sobrio e più maturo. Egli cioè non sente più la necessità di riferirsi ad un modello rigido, come quello proposto da Valerio Massimo, insistendo sulle reazioni fisiologiche occasionate dall’amore e spiegandole per bocca di un medico. Boccaccio sembra essersi reso conto che quei dettagli minuziosi che avevano certamente una loro validità nel contesto storico dello scrittore classico sono estranei al contesto della novella, la quale vive di una sua logica interna, logica narrativa e non logica medico-scientifica.

Consimile la situazione della novella di Lisa e del re Pietro d’Aragona (X, 7) dove però il topos della malattia d'amore è in funzione del tema della nobiltà e della magnificenza del re il quale, "...sentito il fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, lei conforta, e appresso ad un gentil giovane la marita; e lei nella fronte basciata, sempre poi si dice suo cavaliere" (Dec. X, 7, 1).

La fanciulla da una sua finestra vede passare il re, e subito se ne innamora. La distanza che esiste tra la finestra di Lisa e la strada del re crea uno spazio che rimane estraneo sia al mondo della realtà che a quello del sogno, uno spazio che vorremmo chiamare squisitamente letterario e nel quale l'amore di Lisa trova un suo possibile campo d'azione. Come in tutto il mondo del Decameron, anche in questa novella l'elemento realistico non si oppone, ma si accompagna e si compenetra con quello favoloso. L'amore di Lisa non condivide le qualità per così dire realistico-scientifiche che abbiamo trovato nell'amore di Giachetto, ma non è neppure inserito in quella favola "adorna e lontana" che vagheggia il Flora.(3)

È un amore quindi che può solo esistere in quella zona di profonda ambiguità tra il reale ed il fantastico che è propria del Boccaccio maggiore. L'amore di Lisa non è né un exemplum scientifico né una favola bella, ma partecipa ad entrambe le possibilità.

Le altre novelle del Decameron legate al topos fanno parte a se stante, in quanto in esse il tema della aegritudo amoris svolge un compito essenzialmente funzionale, serve cioè all’autore per togliere dalla scena un personaggio senza alterare il ritmo narrativo del racconto. Nella novella di Federigo degli Alberighi (V, 9) il figlioletto di monna Giovanna s'invaghisce oltremodo del falcone di Federigo, e questa passione lo fa ammalare.(4) E quando l'uccello viene ucciso il fanciullo,

... o per malinconia che il falcone aver non potea o per la ‘nfermità che pure a ciò il dovesse aver condotto, non trapassar molti giorni che egli, con grandissimo dolor della madre, di questa vita passò (Dec. V, 9, 38).

Con la morte del bambino viene così aperta la via per il connubio tra monna Giovanna e Federigo.

In maniera analoga nella novella di Paganino da Monaco (II, 10) la aegritudo-amoris svolge la mera funzione di deus ex machina. Il dolore di non potere riavere la moglie fa prima impazzire, e poi morire, Ricciardo da Chinzica, e ciò consente a Bartolomea di convolare a giuste nozze con Paganino (II, 10,42-43).

Molto più complessa è la novella di Lisabetta (IV, 5) in cui, come in quella di Lisa, la dimensione della realtà è tangenziale a quella di un mondo fuori dal tempo e dallo spazio. Lisabetta recide il capo di Lorenzo e lo nasconde entro un testo di basilico che tiene nella sua camera; quella camera e quel testo diventano il suo nuovo mondo, lo spazio della sua nuova esistenza. Null'altro esiste, in quanto in quella pianta essa vede il morto Lorenzo e l'amante sorto a nuova vita, e su di esso la giovane può ad un tempo piangere di dolore e parlare d'amore. Tutto il suo essere è in funzione di questa nuova realtà, e quando il testo le viene portato via,

ella, con grandissima instanzia molte volte richiese, e non essendole renduto non cessando il pianto e le lagrime, infermò, né altro che il testo suo nella infermità domandava... La giovane non restando di piagnere e pure il suo testo addimandando, piangendo si morì, e così il suo disavventurato amore ebbe termine (Dec. IV, 5, 20-23).

Quando la realtà che Lisabetta aveva creato intorno al vaso di basilico si frantuma, con essa deve spegnersi anche la sua vita: morta ogni speranza, muore anche la fanciulla, e quell’amore che non è più possibile in questo mondo viene proiettato in una dimensione extra-mondana.

Nonostante l'apparente eterogeneità degli episodi citati esiste, come si è notato, un sottofondo comune che ripropone una serie di elementi ricorrenti: un desiderio eccessivo, quando non appagato, porta a gravi sofferenze fisiche e morali; la segretezza della passione, o più esattamente l'impossibilità di confessare la propria passione, cagiona malattie che solo il medico esperto d'amore (o lo scrittore suo portavoce) può diagnosticare; la morte del corpo è la sola conseguenza possibile della morte della speranza (si pensi al Petrarca per esempio), a meno che non si applichi il rimedio adatto. Tutti questi elementi fanno appunto parte della dottrina della aegritudo amoris, e l'uso di questo topos nel Decameron si potrà spiegare come un tentativo da parte del Boccaccio di esprimere la complessità della passione d'amore secondo precisi canoni tradizionali, giustificabili quindi nell'ambito della cultura "ufficiale" del tempo. Per l'uomo medievale infatti, osserva giustamente Egidio Gorra, "come a ben scrivere o a ben parlare, come a vivere rettamente, o a coltivare la terra, o a condurre gli eserciti, o a guidare una nave, si richiede la conoscenza di norme sicure, così a concepire e a condurre a buon fine una impresa amorosa sono indispensabili non pochi precetti che insieme raccolti costituiscano una vera e propria arte d'amore" (5): un capitolo di questa ars amandi, a cui ogni autore si richiamava in maniera rigorosa, riguarda appunto la passione d'amore. Per l'uomo del Medio Evo il problema dell'amore, sia sul piano artistico che morale, viene così risolto a livello puramente intellettuale: noti e codificati sono le cause e gli effetti di questa passione, la quale è sinonimo puntuale di follia e di malattia, cioè di aberrazione morale e fisica.

Questa malattia, conosciuta nel Medio Evo con il norne di hereos (6) , fa parte di una tradizione scientifico-letteraria che risale alla fine del quinto secolo a.C., e più precisamente alla dottrina dei quattro umori e della m e l a g c o l i a sviluppata dai medici della scuola di Ippocrate. Si credeva che la salute dipendesse dalla giusta combinazione degli umori, e che il predominio di uno di essi fosse causa di malattia.(7) I medici della scuola ippocratica dedicarono particolare attenzione alla diagnostica dell'umore malinconico (m e l a i n a c o l h ´) in quanto i suoi sintomi patologici sono più marcati di quelli delle altre crasi, e consistono per lo più in mutamenti d'ordine mentale (terrore, depressione, follia), con ripercussioni fisiologiche. L'autore del trattato De morbo sacro (forse il cognato di Ippocrate, Polibio) (8), descrive la patogenesi della malattia causata dalla bile nera partendo dall'idea che il cervello sia il nucleo direttivo dell'organismo:

Porro expedit homines nosse, quod ex nulla alia nobis parte voluptates contingunt, et laeticiae, et risus, et lusus, quam ex cerebro, itemque moerores et anxietates tristitiaeque ac eiulatus et querelae ... Eodem et insanimus et deliramus, et terrores et timores nobis accedunt ... et insomnnia ... et curae inanes, et ut non noscamus adstantes, et desuetudo, et inexperientia. Atque haec omnia perpetimur a cerebro, quurn sanum non fuerit .... Et insanimus quidem prae humiditate. Quum. enim humidius fuerit quam pro natura, necesse est moueri, ubi uero mouetur affectio, necesse est neque uisum quiescere, neque auditum, sed alias aliud uidere et audire, et linguam talia dicere, qualia semper ac singulis uicibus uiderit ac audierit.(9)

Lo sconvolgimento fisico che accompagna quello psichico origina nel cuore, sebbene esso non partecipi all'intelligenza dell’uomo:

Porro dicunt quidam quod corde sapimus, et quod hoc est quod angitur, et quod curam gerit. Uerum hoc non ita se habet, sed conuellitur quidem uelut praecordia, et magis etiam propter easdem caussas. Ex omni enim corpore uenae ad ipsum tendunt, et conclusiones habet ut sentiat, si quis dolor, aut collectio bomini contingat. Necesse est enim et dum angitur, inhorrere corpus ac distendi, et si quis nimio gaudio perfundatur, idem pati. Quadpropter cor quidem et praecordia maxime sentiunt, sapientia tamen minime participant, sed omnium horum cerebrum caussa est.(10)

La follia è dunque causata da un'invasione di bile nera nel cervello e tutto il corpo partecipa, tramite il cuore, agli effetti di questo mutamento psichico con certi sintomi caratteristici, quali palpitazioni, tremori, balbettio. Da questo momento malinconia e follia furono considerate una cosa unica, tanto che il verbo m e l a g c o l a n divenne sinonimo di m a i n e s J a i .(11)

La fusione del concetto di malinconia con quello di follia fu infine sancito da due grandi correnti letterarie: la tragedia (specialmente Euripide) e la filosofia di Platone e di Aristotele. Euripide floruit proprio nel periodo in cui il movimento sofista stava rivoluzionando la vita ateniese, e la sua concezione di e r w V è fortemente influenzata da quella dei sofisti. ‘´E r w V non è più una forza cosmica, quindi oggettiva, come per i tragediografi che lo precedettero, ma è una passione, una forza soggettiva che s'impossessa dell'essere in maniera totale, quasi una malattia. Il centro della vita dell'uomo non è più il soprannaturale, ma il J u m o V , il suo animo, e per questa ragione la realtà delle esperienze umane è vista in rapporto ad esso, e l'interesse del poeta consiste nel tracciare i motivi psicologici, primo tra i quali l'amore, che spingono l'uomo nelle sue azioni. Si prenda l'Ippolito: a prima vista sembrerebbe che il nucleo pioetico del dramma, l'amore non corrisposto di Fedra per il figliastro Ippolito, sia un conflitto proiettato in una dimensione mitica, una battaglia tra Afrodite ed Artemide. Ben presto però ci si rende conto che due divinità non sono altro che figure tradizionali di cui il poeta si serve per cristallizzare le profonde emozioni dei protagonisti. Al centro dell'opera vi è infatti l'a g o n di Fedra il conflitto tra la sua passionalità e la sua razionalità. L'amore di Fedra non è dissimile da quello di Pasifane e di Arianna: non è una forza divina, ma una follia tragica, una a t h che, osserva C. S. Lewis, "plunges otherwise sane people (usually women) into crime and disgrace"(12) : un p a J o V quindi che ha le sue radici più profonde nell'animo umano e che può spingere l'uomo verso una completa disgregazione mentale e fisica.

Anche per Platone l'amore è occasionato dalle belle parvenze sensibili, ha cioè la sua occasione esterna nel mondo fenomenico: e r w V , si legge nel Cratylus viene così chiamato "o t i e s r e i e x w J e n "(13) ; l'amore nasce quindi come amore sessuale che si accende a contatto delle forme visibili. E poiché ciò che piace alla vista (il più perfetto dei sensi) è il bello, l'amore è amore del bello, ed il bello piace in quanto è un riflesso dell'idea nel sensibile.(14) L'anima umana che nella sua parte superiore (n o h t i c o n ) è in rapporto intimo con l'Idea, ne avverte la presenza, ed a contatto con il bello sensibile prova un brivido misterioso(15) : l'amore inizia la sua ascesa verso l'eterno con un atto irrazionale, che ha tutti i caratteri di una m a n i a la quale, estraniando l'uomo a se stesso, gli annuncia un valore che è al di là.(16) L'amore è perciò condizionato, a parte obiecti, dalla bellezza delle umane sembianze, mentre l'anima deve riconoscere sempre più consapevolmente il valore ideale che trapela dalle apparenze: "... senza l'intervento del pensiero - chiariva il Faggin - il messaggio dell'Idea rimane indecifrabile".(17) L'uomo può quindi assumere un duplice atteggiamento di fronte alle forme sensibili: può amare la bella parvenza in quanto in essa riconosce l'assoluto, e quindi trascendere la bellezza sensibile per possedere noeticamente ciò che è eterno; o può accettare ed amare la bella parvenza come realtà assoluta, e desiderare di possederla in quanto nulla vede al di là del sensibile e nulla cerca al di fuori d'esso: il primo è l'amore puro che salva l’anima; il secondo è l'amore sessuale, inferiore, è una n o s h m a che distrugge l'anima.(18) Questo amore inferiore non è però necessariamente causa di reazioni fisiologiche, in quanto per Platone i moti dell'anima sono indipendenti dalle modificazioni del corpo; la sede delle sensazioni è l'anima e, scrive Paul Siwek, "le corps n'est requis que pour l'intégrité du phénomène".(19)

Fu però Aristotele, con il suo sistema di filosofia naturale, a dare forma definitiva alla dottrina della aegritudo amoris. L’assioma fondamentale del suo sistema psico-fisiologico è che la sensazione è un movimento comune ed indivisibile dell’anima e del corpo.(20) Le passioni sono À i n h s e i V y n c h V , sono cioè affezioni sensibili tramite le quali l'intelletto muove i corpi(21), e sono divise in due gruppi: perturbazioni mentali e perturbazioni somatiche. Al primo gruppo appartengono quelle passioni che esprimono tendenze, desideri, appetiti, che Aristotele definisce l o g o i e n u l o i cioè processi psichici intimamente legati ai processi fisiologici di modo che, per descriverli, ambedue gli aspetti devono essere presi in esame.(22) Al secondo gruppo appartengono le s o m a t j c a p a J h , cioè quelle passioni che, come e r w V , hanno origine nel corpo ma influenzano profondamenteIa costituzione mentale dell'individuo.(23) Aristotele definisce infatti e r w V un desiderio di riproduzione(24) , mentre per ciò che riguarda il suo aspetto fisiologico esso consiste, al pari dell'ira, in una "ebollizione del sangue intorno al cuore".(25)

L'amore, si legge in un frammento del trattato aristotelico ‘E r w t i c o V conservatoci da Abu 'l Hasan Ali b. Muhammad al-Dailami nel suo libro k. atf al-alif al-ma ‘luf ala ‘l-lam al ma ‘tuf, nasce nel cuore e di qui si espande per tutto l’organismo:

L'amore è un impulso che ha la sua origine nel cuore; una volta nato, l'amore esce dal cuore e aumenta di intensità, finché raggiunge uno stadio di piena maturità. Quando è maturo, ogni qual volta crescono nel profondo del cuore dell'amante l'eccitamento, la perseveranza, il desiderio, il concentramento, le voglie, l'amore è accompagnato da affezioni dell'appetito. Questo stato di amore conduce l'amante a uno stato di cupidigia, e lo spinge a richiedere con insistenza l'oggetto della sua passione; le conseguenze della privazione dell'amore saranno perciò dolore inquieto, continua insonnia, passione senza speranza, tristezza e deperimento mentale.(26)

Perché nasca l'affezione è necessario un appetito, in quanto "... ciò che è mosso viene mosso per influenza dell'appetito e quindi l'appetito è motore, e l'appetito è una specie di movimento..."(27) . Poiché "il desiderio coincide con la mossa iniziale dell'intelletto pratico"(28), p r v t o n c o i n o u n (29) è l'oggetto fuori del soggetto il piacere cioè determinato dalla vista di una bella forma.(30) Nata l'affezione questa s'irradia dal cuore come forza motrice in qualità di s u m j u t o n p n e u m a (31) ; questo pneuma, che Aristotele considera il principio vitale dell'organismo, fonte del calore animale e quindi legato al sangue, determina la costituzione fisica e mentale dell'individuo(32) . É per questa ragione che egli può paragonare l'amore alla ubriachezza ed alla pazzia, a momenti patologici cioè in cui la ragione è totalmente offuscata(33) . La vista di una bella parvenza fa quindi nascere nel soggetto un desiderio che, alterando la temperatura interna del corpo per mezzo cuore, sconvolge la sua bilancia fisiologica e psicologica: "...è infatti evidente che l'ira, i desideri sessuali e le altre passioni di questo genere alterano anche la disposizione del corpo, e talvolta sono causa di follia"(34).

Dopo Aristotele e del suo ‘E r w t i c o V (della cui esistenza gli scrittori arabi erano a conoscenza) (35) , il topos della aegritudo amoris fu soggetto di studi da parte di altri scrittori quali Eracleide Pontico, Teofrasto, Clearco(36) . Questa tradizione medico-filosofica, ripresa da Galeno e quindi dai bizantini Oribasio e Paolo d'Egina, giunse ai Siri ed agli Arabi i quali a loro volta influenzarono notevolmente gli scrittori medici delle scuole di Salerno, di Montpellier e di Bologna. Ma accanto a questa tradizione medico-scientifica si sviluppa una tradizione parallela di carattere più genericamente letterario. Il punto di partenza sarà ancora una volta Euripide, e in parte la tradizione dei lirici greci, ma il momento di pieno sviluppo si potrà identificare nella commedia nuova e nei romanzi dell'età alessandrina, come ad esempio nelle Argonautiche di Apollonio Rodio.

Queste due correnti, che chiameremo con termine approsimativo corrente scientifico-filosofica e corrente letteraria, seguirono un loro corso indipendente, ma a partire dal primo secolo a.C. lentamente si compenetrarono influenzandosi a vicenda. L'esempio più cospicuo di questo fenomeno di osmosi ci viene fornito dalla storia di Antioco e di Stratonice che, attribuita ad Erasistrato e tramandata da Valerio Massimo e Plutarco, si arricchì di mano in mano di elementi riferentisi all'amore presi sia dalla tradizione medica che da quella letteraria, fusi in un tutto omogeneo.

Valerio Massimo narra che Antioco, figlio del re Seleuco, s'innamorò della matrigna Stratonice e che "... summa cupiditas et maxima uerecundia, ad ultimam tabem corpus eius redegerunt..."(37) . Ma il medico del re,

... iuxta ... Antiochum sedens, ut eum ad introitum Stratonices rubore perfundi et spiritu increbrescere eaque egrediente pallescere et excitationem anhelitum subinde recuperare animaduertit, curiosiore obseruatione ad ipsam ueritatem penetrauit: intrante enim Stratonice et rursus abeunte brachium adulescentis dissimulanter adprehendendo modo uegetiore modo languidiore pulsu uenarum comperit cuius morbi aeger esset, protinusque id Seleuco exposuit.(38)

Seleuco ora è a conoscenza del fatto che il figlio è ammalato d'amore ed in pericolo di vita; egli accondiscende perciò, su consiglio del medico, a cedergli la moglie, e tale rimedio guarisce il giovane in breve tempo. Ma ciò che interessa Valerio Massimo è l'aneddoto, la piccola storia che possa rientrare nei canoni della sua epitome scolastica: egli non si cura minimamente delle possibilità narrative dell'episodio, che molto probabilmente egli imita da un modello precedente. Ciò che è interessante è il metodo diagnostico del medico, basato sulle variazioni del battito del polso, e la convinzione che tale malattia possa venir curata soddisfacendo i desideri dell'ammalato, elementi questi che divennero parte integrante della dottrina medievale della aegritudo amoris.

Ben più ricca e produttiva, nel contesto dell'evoluzione del concetto d'amore, è la versione dell'episodio offertaci da Plutarco. Egli narra che Antioco, innamoratosi perdutamente della matrigna Stratonice,

tentò in vari modi di sopraffare la sua passione, ma alla fine, giudicando se stesso degno di punizione per aver ceduto ai suoi desideri smoderati, per essersi abbandonato alla sua incurabile malattia e per aver soggiogato la sua ragione, decise di cercare in qualche maniera di por termine alla propria vita e di distruggere se stesso gradatamente col trascurare la propria persona e con l’astenersi dal cibo, adducendo come pretesto una qualche malattia.(39)

Il medico Erasistrato, resosi conto del perché della malattia, decide di rimanere nella camera del giovane,

e ogni qualvolta entrava un cinedo od una donna della corte, egli studiava il comportamento di Antioco, e controllava quelle parti e quei movimenti del corpo che la natura ha reso più attraenti alle inclinazioni dell’animo.(40)

E quando entra Stratonice,

il medico riscontrò in Antioco tutti quei segni di cui parla Saffo - balbettio rossore, visione offuscata, sudori repentini, palpitazioni irregolari del cuore, ed infine, quando il suo animo fu preso d'assalto, fu pervaso da un senso d'impotenza, di smarrimento e divenne smorto - .(41)

Plutarco, come già Aristotele, considera e r w V una o r e x i V che ha sede nel cuore e che, quando cresce, si unisce ad e p i J u m i a e diviene causa di dolore, insonnia e follia(42) . Plutarco però, a differenza di Valerio Massimo, non si serve solamente del battito del polso (o del cuore) come mezzo per diagnosticare la aegritudo, ma coll'attribuire valore scientifico ai segni della passione d'amore dedotti dalla tradizione poetica, egli inaugura una sintomatologia medico-poetica che rimarrà fondamentalmente immutata fino a tutto il Medio Evo.

Dopo Plutarco la storia di Antioco, che ebbe diffusione larghissima nel Medio Evo, si dirama in due correnti principali, una letteraria e un'altra più propriamente medica. Del primo gruppo fanno parte le versioni dello storico Appiano, di Luciano, di Giuliano l'Apostata, le varianti di Draconzio, di Aristaenetus, dell'anonima Aegritudo Perdiccae e della Vita Hippocratis dello pseudo-Sorano, i brevi accenni nella Historia Apollonii Tyri ed in Suidas, varie storie nella Mille e una notte, la storia XL delle Gesta Romanorum, le pagine d'apertura del Mesnewi di Dschelaleddin Rumi, l'episodio di Giachetto e Giannetta nel Decameron (fino a giungere al Wilhelm Meister di Goethe)(43) . Al secondo gruppo, senza dubbio il più interessante per noi, appartengono le versioni di Galeno e di Avicenna e gli accenni al metodo di diagnosi basato sul battito del polso che si ritrovano in quasi tutte le opere mediche medievali(44) .

Sebbene Galeno non dedichi uno studio particolare alla aegritudo, egli ci offre un esempio pratico di questo metodo nel trattato De praenotione ad Posthumun(45) . Il narrato non differisce sostanzialmente da quello di Valerio Massimo, di Plutarco o di Luciano. Ciò che invece è mutato è il significato ultimo dell'episodio, il quale ora non adempie più una funzione didattico-morale, storica o semplicemente aneddotica, bensì rigorosamente scientifica: Eros è una malattia, ed è compito del medico studiarne le cause, i sintomi, i metodi terapeutici. Questo rigore scientifico venne ereditato da tutti i medici posteriori a Galeno che considerarono Eros una malattia cerebrale da studiare separatamente o unitamente alla follia ed alla malinconia.

Poiché quasi ogni opera medica prodotta dopo il I secolo d.C. contiene almeno un capitolo sull'amore, uno studio esauriente dello sviluppo di questa dottrina coinvolgerebbe un esame delle singole opere e dei legami che intercorrono tra di esse; nel nostro caso però due esempi dovrebbero essere sufficienti a riflettere la dottrina nel momento della sua piena maturità, pochi decenni prima della stesura del Decameron: l’enciclopedia medica di Bernardus Gordonius ed il commento latino che Dino del Garbo scrisse sulla canzone "Donna me prega" di Guido Cavalcanti.

Bernardus Gordonius, uno dei medici più famosi della scuola di Montpellier, floruit verso il 1285. Nella sua opera principale, il Lilium Medicinae, la aegritudo amoris è inserita in un capitolo dedicato alle malattie cerebrali, ed è diviso in varie sezioni (causa, signa, pronostica, cura, clarificatio) secondo lo schema tipico di queste opere. Il capitolo si apre con una definizione generale dell'amore: "morbus qui hereos dicitur est sollicitudo melancholica propter mulieris amorem" e prosegue quindi con la discussione delle sue cause:

Causa huius passionis est corruptio existimativae propter formam et figuram fortiter affixam, unde cuin aliquis philocaptus est in amore alicuius mulieris, ita fortiter concipit formam et figuram et modum quoniam credit et opinatur hanc esse meliorem, pulchriorem, magis venerabilem, magis speciosam, et melius dotatam in naturalibus et moralibus quam aliquam aliarum; et ideo ardenter concupiscit eam, et sine modo et mensura opinans si posset finem attingere quod haec esset sua felicitas et beatitudo. Et intantum corruptum est iudicium rationis, quod continue cogitat de ea, et dimittit omnes suas operationes.... Et quia est in continua meditatione, ideo sollicitudo melancholica appellatur.(46)

I signa sono quelli che abbiamo già incontrato: tremori, sudori, pallore e battito irregolare del polso; più interessante pronosticatio che, osserva l'autore, "... est talis quod nisi herosis succurratur in maniam cadunt aut moriuntur": se il morbus non viene prontamente curato il soggetto può impazzire o morire, e una delle possibili terapie consiste nel convincerlo "... ad diligendum multas, ut distrahatur amor unius propter amorem alterius".(47)

Dino del Garbo fu quasi contemporaneo di Bernardus, e la concezione d'amore che egli sviluppa nel suo Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus è parallela a quella del medico di Montpellier. Amor, egli scrive, "... est... passio quaedam in qua appetitus est cum uehementi desiderio circa rem quam amat, ut scilicet coniugatur rei amate..."(48) . La patologia dell'aegritudo è sempre quella tradizionale; di grande interesse è invece la pronosticatio: questa passione può essere causa di morte in quanto impedisce l'opera della "uirtutis uegetative uel uirtutis uitalis, que conseruat uitam et operationes eius in corpore humano"(49) . Infatti, prosegue Dino,

Uidemus ad sensum corpora illorum in quibus est amor adeo uehemens ... arefieri et desiccari et tandem consumi et mori ...(50) .

Et quia in amore intenditur ualde actus animate uirtutis, ideo diminuitur et debilitatur ualde operatio nutrimenti, propter quod corpus decidit et remouetur a sua bona dispositione naturali et tendit in dispositionein malam et egram, propter quod ultimo corpus consumitur et moritur(51) .

Tale passione è perciò una malattia vera e propria, e "... uocatur... ' ereos ' ab auctoribus medicine"(52) .

È necessario infine porre in rilievo il fatto che questa passione, che può sconvolgere l'equilibrio psichico dell'uomo e provocare questa letale reazione somatica, non è causata solamente dal desiderio sessuale ma dall'amore di qualsiasi oggetto che piaccia oltre ragione(53) .

Già nel Teseida Boccaccio mostra di essere a conoscenza di queste dottrine sull'amore, e nelle Chiose all'opera egli si richiama direttamente a Dino del Garbo:

amore volere mostrare come per le sopradette cose si generi in noi, quantunque alla presente opera forse si converrebbe di dichiarare, non è mio intendimento di farlo, perciò che troppo sarebbe lunga la storia: chi disidera di viderlo, legga la canzone di Guido Cavalcanti "Donna mi priega etc.", e le chiose che sopra vi fece Maestro Dino del Garbo. Dice adunque sommariamente che questo amore è una passione nata nell'anima per alcuna cosa piaciuta e di poterla avere...(54) .

Ma l'influenza diretta delle dottrine garbiane si fa sentire solo nelle opere scritte dopo il 1366, dopo che il Boccaccio trascrisse, per uso personale, la canzone cavalcantiana unitamente al commento. Nelle Genealogie (IX, 4) Boccaccio introduce una digressione sull'amore, che non è altro che una parafrasi del testo di Dino, dopo il racconto degli amori tra Venere e Marte, e la stessa digressione viene poi adattata nel Comento a chiosa delle terzine sull'amore di Francesca. L'amore, scrive Boccaccio nel Comento,

…è una passion di mente delle cose esteriori, e, per li sensi corporei portata in essa, è poi approvata dalle virtù intrinseche, prestando i corpi superiori attitudine a doverla ricevere .... E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nell'appetito sensitivo, e quivi in varie cose adoperanti divien sì grande, e fassi sì potente, che egli fatica gravemente il paziente e a far cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costringe...(55) .

Francesca ha peccato perché si è fatta travolgere da una passione dell'anima sensitiva la quale, offuscando l'opera della ragione, l'ha costretta a seguire un bene particolare sostituendolo al bene universale: è evidente dunque che il Boccaccio si serve di questa concezione derivata dalla glossa garbiana per pronunziare una condanna morale nei confronti di Francesca.

Ritorniamo al Decameron. Se è vero che malattia d'amore è una metafora comune a quasi tutte le civiltà antiche (si pensi ad Amnon e Tamara nel Vecchio Testamento ed alla poesia S48 del Papyrus Harris 500 che risale al 1300 a.C, ca.) e che la aegritudo di Giachetto e forse quella di Lisa sono giustificabili nel contesto della tradizione della storia tramandata da Valerio Massimo, mi sembra che le altre manifestazioni del tema della malattia d'amore (l'ammalarsi per amore di un oggetto o di un animale - il figlio di monna Giovanna -, il morire d'amore Ricciardo da Chinzica, Lisabetta, Girolamo e Salvestra -) suggeriscano una notevole conoscenza da parte del Boccaccio delle dottrine sviluppate dagli scrittori medici nel Medio Evo. Per determinare il significato del topos nel Decameron è però necessario discutere brevemente la concezione medievale dell'amore.

Ben nota è la polemica, sorta negli'ultimi anni nel mondo anglo-americano, tra il gruppo di studiosi che fanno capo a C. S. Lewis (ma si potrebbe partire da Gaston Paris) e che considerano la concezione dell'amour courtois uno dei momenti fondamentali dello sviluppo della sensibilità moderna, e altri medievalisti come Peter Dronke che considerano l'amour courtois una mera invenzione dei critici moderni. Così nel 1936 C. S. Lewis scrisse nel suo famoso studio sull'amore, The Allegory of Love (pp. 2-4):

Everyone had heard of courtly love, and every one knows that it appears quite suddenly at the end of the eleventh century in languedoc .... French poets, in the eleventh century, discovered or invented, of were the first to express, that romantic species of passion which English poets were still writing about in the nineteenth. They effected a change which has left no corner of our ethics, our imagination, or our daily life untouched, and they erected impassable barriers between us and the classical past or the Oriental present. Compared with this revolution the Renaissance is a mere ripple on the surface of literature.

Più recentemente Reto Bezzola, continuando questa tradizione critica, si chiede:

Pourquoi cette nouvelle poésie, qui exprime una nouvelle conception de l'homme, qui donne une image absolument nouvelle de la femme, qui présente les rapports entre les êtres humaines d'une manière absolument nouvelle, surgit-elle juste en ce moment, au XIe e au XIIe siècle ... ? Ce qui reste à expliquer presque entièrement, c'est la nouvelle conception de l'amour(56) .

Peter Dronke, al contrario, rifiuta questa concezione di un nuovo modo di esprimere il sentimento d'amore:

I am convinced that this received opinion, this belief in a wholly new conception of love, is false .... For I should like to suggest that the feeling and conceptions of amour courtois are universally possible, possible in any time or place and on any level of society.(57)

Pur non accettando la tesi proposta dal Lewis o dal Bezzola, non mi sembra però che si possa negare l'esistenza, nel Medio Evo, di un corpus ben definito di precetti sull'amore cristallizati della tradizione religiosa e poetico-scientifica: se mai è necessario rimettere in questione il significato di queste artes amandi. I teorici del tempo, come sappiamo, distinguevano due tipi d'amore: caritas e concupiscentia. Il primo è un amore secondo ragione, un amore scevro da peccato e che non può offendere a livello sociale; San Tommaso lo chiama "amor d’amicizia", ed il poeta Guillelm Montanhagol dice che da questo nasce castità (D'amor moù castitatz)(58) .

L’altro è il desiderio carnale, l'istinto sessuale, ciò che San Tommaso chiama "concupiscentia" e Marcabru falsa amicizia (Fals’amistat)(59) . Le sfere d'azione di questi due tipi d'amore sono totalmente separate, e non è possibile concepire un amor caritatis partecipe di elementi, anche se minimi, dell’amor concupiscentiae (si tenga presente a questo proposito

la concezione medica dell'istinto sessuale, secondo la quale la donna è schiava dei propri sensi al pari dell'uomo)(60) .

L'amore carnale ha una sua ragione d'essere nel matrimonio, ed in questo caso anche il piacere sessuale è ragionevole e giustificabile(61) . Fuori dal vincolo del matrimonio il desiderio carnale è un male che offusca la ragione e che distrugge la fibra morale dell'individuo.

Poiché la Chiesa distingueva nettamente tra le due manifestazioni d'amore, condannando l'amore sessuale extra-coniugale senza riserva, il poeta che volesse descrivere l'amore di un uomo per una donna (cioè la maggior parte dei poeti) correva il rischio di entrare in una zona proibita. L'unico modo di ovviare al pericolo di una condanna morale era di esprimere la passionalità d'amore secondo canoni convalidati dalla tradizione letteraria, oggettivando se stesso dalla propria creazione poetica ed anzi facendosi giudice del proprio assunto. Ciò potrebbe spiegare il corpus di esempi, di modi di dire, di atteggiamenti riferentisi all'amore e tolti dalla tradizione poetica classica, ed il forte interesse per una scienza medica dell'amore. La tradizione letteraria giustifica l'uso di certe espressioni moralmente inaccettabili, mentre la concezione della passione come di una aegritudo riconosciuta dall'autorità medica del tempo riflette il giudizio dell'autore: la passione offusca la ragione, distrugge la psiche, debilita l'uomo, è causa di morte; è un male da cui si dovrebbe fuggire, anche se talvolta è un male inevitabile. Il problema dell'amore vien quindi risolto ad un livello razionale, puramente retorico e non sentimentale-psicologico.

Se la nostra tesi è valida, la concezione d'amore del Decameron segue linee strettamente tradizionali e non è indice, come vorrebbe Aldo Scaglione, di un nuovo naturalismo. Il Decameron per Scaglione è un "battle cry against the excesses of the Middle Ages", e quest'amore è "... direct, unhesitating, charmingly youthful, and amorally determined to win its case with all means, specifically ingegno... Boccaccio's love is ' naturalistic ' inasmuch as it is an urge that engages the whole human being, body and soul, muscles and mind, senses, will, and intellect, all at the service of natural desires"(62) ; e quindi, a proposito della novella di Girolamo e Salvestra,

... not only does it [love] tolerate no interference from reason (consiglio), but it will destroy its beater rather than retreat in the face of a serious impediment. The reference to ‘nature’ ‘natural ' occurs as a true Leitmotiv througn this page(63) .

Ma questo amore che impegna l'animo e il corpo, i sensi e l’ingegno è l'amore di cui parla Bernardus Gordonius (e con lui tutti gli altri medici del tempo), quella passione che s'impossessa di tutto l'essere di modo che l'uomo "... ideo ardenter concupiscit mulierem... et sine modo et mensura opinans si posset finem attingere quod haec esset sua felicitas et beatitudo. Et intantuni corruptum est iudicium rationis, quod continue cogitat de ea, et dimittit omnes suas operationes..."(64) . Non si può neppure parlare di "naturalismo" (nel senso in cui lo Scaglione adopera il termine) per ciò che riguarda la morte di Girolamo e Salvestra, che non è l'archetipo della morte romanticamente intesa, ma la conseguenza fatale della aegritudo. Si potrà quindi parlare di "naturalismo" non come apertura verso il Rinascimento, ma come aderenza spirituale a quei precetti che costituivano l'humus vitale della dottrina medievale della passione d'amore.

I critici del Boccaccio hanno spesso ignorato questi trattati "eccentrici" sull'amore, che fanno parte integrale della cultura "ufficiale" del Medio Evo. Per questo motivo mi semra si possa dire per Boccaccio ciò che C. S. Lewis scrisse proposito di Chaucer:

The stupidest contemporary, we may depend upon it, knew certain things about Chaucer's poetry which modern scholarship will never know; and doubtless the best of us misunderstands Chaucer in many places where the veriest fool among his audience could not have misunderstood(65) .

 

NOTE

(1) GIOVANNI BOCCACCIO, Decameron, ed. V. Branca (Firenze, 1960): i numeri in parentesi si riferiscono rispettivamente alla giornata, alla novella ed al paragrafo dell'ed. Branca.
(2) Si veda il paragrafo introduttivo della II, 9.
(3) FRANCESCO FLORA, Storia della Letteratura Italiana (Milano, 1962), I, 404.
(4) "ammalato quasi d’amore per il suo falcone": così LUIGI RUSSO, Letture critiche del Decameron (Bari, 1956), 214.
(5) EGIDIO GORRA, Fra Drammi e Poemi (Milano, 1900), 202.
(6) Per la genesi del nome si veda l’ottimo articolo di J. L. LOWES, The Loveres Maladye of Hereos, in "Modern Philology", II (1914), 491-546.
(7) HIPPOCRATIS, De Natura Hominis, ed. W. H. S. Jones (Loeb, 1962), IV, c. 4.
(8) HIPPOCRATIS, ed. cit., II, 134.
(9) IPPOCRATE, Opera Omnia (Basilea, 1558), f. 215 sg.
(10) Ibid., f. 127.
(11) Cf. PLATONE, Timaeus 268 E; DEMOSTENE in Olimp. 56; si veda anch R. KLIBANSKY, Saturn and Melancholy (London, 1964), 17.
(12) C. S. LEWIS, The Allegory of Love (New York, 1958), 4.
(13) PLAONE, Cratylus 420 B. Per la sezione su Platone mi sono servito ampiamente del saggio di G. Faggin, s. v. "Amore", Enciclopedia Filosofica (Venezia-Roma, 1957), I, 174.
(14) AisJhsi aggelloV: PLOTINO, Enn. V, 3, 3. Cf. FAGGIN, Loc. cit.
(15) Frich: PLATONE, Phaedrus 251 A.
(16) PLATONE, Phaedrus 144 A, 249 D-E.
(17) G. FAGGIN, Loc. cit.
(18) PLATONE, Phaedrus, 244 A sg., 265 A-B.
(19) PAUL SIWEK, La Psychophysique Humaine d’après Aristote (Paris, 1930), 94. Cf. PLATONE, Timaeus 64 B, Rep. IX. 583 E-584 C.
(20) ARISTOTELE, De Anima I. 4. 408 B 1-15.
(21) ARISTOTELE, Pol. VIII. 7. 1342 A8; cf. De Mem. I. 450 B 1.
(22) ARISTOTELE, De Anima I. 1. 10. 403 A 25-B 8.
(23) ARISTOTELE, Rhet. I. 2. 1370 A 22 sgg.
(24) ARISTOTELE, De Anima II. 4. 415 A 23 sgg.
(25) Ibid., I. 1. 10. 403 A 25-B 8.
(26) Il Professor D. A. Manzalaoui mi ha gentilmente aiutato a tradurre il testo arabo, che ho poi confrontato con la traduzione inglese di F. WALZER, in Greek into Arabic (Cambridge, Mass., 1962), 42 sg. Per il testo arabo rimando all’edizione del Walzer, Loc. cit.
(27) ARISTOTELE, De Anima III. 10. 433 B 17-18; cf. 433 A 21 ed anche 433 A 31-B. Tutte le traduzioni, a meno che non sia altrimenti indicato, sono mie.
(28) Ibid., III. 10. 433 A 15-16.
(29) ARISTOTELE, De. Mot. An. 6. 700 B 23-24.
(30) ARISTOTELE, Eth. Nic. IX. c. 5. 116 b AE-1167 a C.
(31) Si veda ARISTOTELE, De Part. An. III. 3. 665 A 10 sg., 4. 666 B 10 sg., De Som. 2. 456 A 4 sg., ecc.
(32) ARISTOTELE, De Part. An. II. 4. 651 A 2 sgg.; cf. 667 A 9 sgg.
(33) ARISTOTELE, Eth. Nic. VII. 3. 1147 A 10 sgg.
(34) ARISTOTELE. Loc. cit.
(35) Si veda ad es. al-Qifti, p. 43, 12, Lippert; cf. WALZER, Op. cit., 53.
(36) Diog. Laer. V, 87. Cf. O. VOSS, De Heraclidis Pontici Vita et Scriptis (Diss., Rostock, 1896), 51-54.
Diog. Laer. V, 43. Cf. H. USENER, Analecta Theophrastea (Diss., Bonn, 1858), 3.
Fragmenta Historicorum Graecorum, ii (Paris, 1848), 313-16. Si veda anche E. RHODE, Der griechische Roman und seine Vörlaufer (Heidelberg, 1960), 57 sgg.
(37) VALERIO MASSIMO, Memorabilia, V, 7, ext. 1.
(38) VALERIO MASSIMO, Loc. cit.
(39) PLUTARCO, Vita Demetri, 38.
(40) PLUTARCO, Loc. cit.
(41) Ibid.
(42) Cf. PLUTARCO, ap. Stob., Flor. Iv, 20, 67 H (=VII, 132, 15 sgg., Bernard).
(43) Lo sviluppo della storia di Antioco è stata studiata da E. RHODE, Op. cit., p. 55 sgg., e quindi ridiscussa da M. WELLMANN, Hermes, 35 (1900), 380 sg., e da J. MESK, Rhein. Mus. 68 (1913), 366 sgg.; cf. WALZER, Op. cit., 51, n. 1.
(44) GALENO, Comm. in Hippocr. de humor., ed. Kühn, XIV, 308-10; cf. XVIII, ii, 40 e De praenat. ad Posth., Kühn, XIV, 631-33. PAOLO D’EGINA, De re medica libri septem, III, xvii. AVICENNA, Canon medicinae, Fen. I, tr. 5, c. 24. BERNARDO DI GORDON, Lilium Medicinae, c. XX., part. ii. GUGLIELMO DA SALICETO, Cyrurgia, c. XVIII. ecc.
(45) GALENO, De praenot. ad Posth., Kühn, loc. cit.
(46) BERNARDO DI GORDON, Lilium Medicinae, loc. cit. Cito dell’edizione del 1491 che ho confrontato con quella del 1550 e del 1557.
(47) Ibid.
(48) DINO DEL GARBO, Scriptum super…, ed. G. Favati, in Rime di Guido Cavalcanti (Milano-Napoli, 1597), 371 sgg.
(49) DINO DEL GARBO, ed. cit., 369.
(50) Ibid.
(51)DINO DEL GARBO, ed. cit., 370.
(52)DINO DEL GARBO, ed. cit., 372.
(53) Si vedano le definizioni di amor heroicus di ARNALDUS DE VILLANOVA, Tractatus de amore qui heroycus nominatur, c. I, f. 215, e di GIOVANNI DI TAORMINA, Clarificatorium, ff. 19-20.
(54) GIOVANNI BOCCACCIO, Teseida, ed. A. Limentani (Milano, 1964), 464. A. E. Quaglio in un suo articolo, Prima foruna della glossa garbiana a ‘Donna me prega’ del Cavalcanti, in questo "Giornale", 149 [1964], 336-368, ha dimostrato inequivocabilmente che l’unico manoscrtto che conserva la glossa di Dino del Garbo, il Chigiano L. V. 176 (cc. 29r-32v) della Vaticana, è autografo del Boccaccio.
(55) GIOVANNI BOCCACCIO, Esposizione sopra la Comedia di Dante, ed. G. Padoan (Milano, 1965), 318 sgg.
(56) RETO BEZZOLA, Les origines et la formation de la littérature courtoise en Occident (Paris, 1960), ii, 242-249.
(57) PETER DRONKE, Medieval Latin and the Rise of European Love-Lyric (Oxford, 1965), i, 2. D. W. ROBERTSON in un suo saggio, "The concept of coutly love as an impediment to the understanding of Medieval texts", in The Meaning of Courtly Love, ed. F. X. Newman (Albany, 1968), assume una posizione estrema e nega tout-court l’esistenza dell’amour coutois, e quindi di tutte le convenzioni che il termine comporta (corti d’amore, leggi d’amore ess.).
(58) Les poésies de Guilhem de Montanhagol, ed. P. T. Ricketts (Toronto, 1964), 121-23 (P. -C. 225,2).
(59) Poésies complètes du troubadour Marcabru, ed. J. M. L. Dejeanne, Bibl. Merid., 1a ser., 12 Toulouse, 1909), canzoni V e VI (P. - C. 293, 5 e 6).
(60) Il testo classico di sessuologia femminile nel XIV sec. è il De secretis mulierum (per le varie eds. si veda LYNN THORNDYKE, in Speculum, XXX (1955), 427-43). Cf. J. F. BERTON, "Clio and Venus: An Historical View of Medieval Love", in The Meaning of Courtly Love, ed. cit., 32-33.
(61) Si veda il volume di J. FUCHS, Die Sexualethik des heilingen Thomas von Aquin (Köln, 1949), 21-30.
(62) ALDO SCALGIONE, Nature and Love in the Late Middle Ages (Berkeley-Los Angeles, 1963), 67-68.
(63) Ibid., 79.
(64) Si veda la n. 46 di questo saggio.
(65) C. S. LEWIS, Op. cit., 163. Questo saggio è stato possibile grazie ai suggerimenti ed al costante aiuto da parte del Professor Guido Almansi.

MASSIMO CIAVOLELLA