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Romanisches Seminar

Stephan Schmid

Titularprofessor für Italienische Sprachwissenschaft und wissenschaftlicher Mitarbeiter am Phonetischen Laboratorium der Universität Zürich

Phonetisches Laboratorium der Universität Zürich
Rämistrasse 71
CH - 8006 Zürich
+41 (0)44 634 30 01

Büro KOL H 318 A

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Interviste - L'Italia a Zurigo

(Intervista a cura di Katja Koutsogiannakis e Philip Pika)

Qual è stata la sua formazione?
L’interesse per l’italiano è nato negli anni ’70, quando la mia famiglia si è trasferita dal Canton Zurigo, dove sono nato, al Canton Soletta, dove ho avuto la possibilità di venire a contatto con lavoratori stranieri. Questo mi ha spinto a studiare l’italiano. Erano anni in cui la situazione politica e culturale in Italia presentava molti aspetti interessanti.

E poi ha continuato i suoi studi a Zurigo?
Si. Avevo inizialmente interessi soprattutto di tipo letterario. In un secondo tempo mi ha attratto la linguistica. Sono stato allievo di Güntert, di Besomi, di Isella e poi ancora di Huber, titolare allora della cattedra di linguistica. In seguito, a Pavia, ho seguito i corsi di Maria Corti, specialista di letteratura, storia della lingua e filologia italiana. È stato lì che ho sentito parlare per la prima volta di linguistica moderna. Tornato a Zurigo, ho preparato il lavoro di licenza sull’italiano parlato dalla seconda generazione di italiani in Svizzera, sotto la guida di Gaetano Berruto, il quale privilegiava un approccio di tipo sociolinguistico e semantico-pragmatico. Sono in seguito diventato suo assistente per sei anni. Ho seguito la metodologia della linguistica descrittiva, facendo interviste. La lingua parlata mi ha sempre affascinato.

Quali sono stati i suoi interessi successivi?
La fonologia e la fonetica. Nel mio lavoro di dottorato ho trattato l’apprendimento dell’italiano dei lavoratori spagnoli, avvenuto in Svizzera a contatto con i colleghi italiani. Sbobinando, trascrivendo e analizzando le interviste realizzate, ho ritenuto interessanti i fenomeni legati alla pronuncia dell’italiano parlato dagli spagnoli. Da lì l’idea del mio lavoro di abilitazione: tipologia fonologica dei dialetti italiani. E con questa idea sono andato in Italia, a Padova. Sono tornato a Zurigo nel ’95, quando si è liberato il posto che occupo attualmente: responsabile del laboratorio di fonologia. Ritengo questa università prestigiosa, grazie alla fama di alcuni professori.

In cosa consiste la sua ricerca attuale?
Partecipo a una ricerca su alcuni dialetti italiani, assieme al professor Loporcaro. Da qualche anno conduciamo questo studio sul campo su alcuni dialetti del Nord Italia. Ci siamo recati più volte in paesini un po’ sperduti dell’Appenino Emiliano a fare delle interviste. Poi ho un piccolo progetto riguardante un particolare tipo di consonante che si incontra nel romancio, nella bassa Engadina. La stessa si ritrova anche in certi paesi del Nord Italia e addirittura in certe regioni conservative della Calabria. Siccome ci sono circa cinque mila calabresi che abitano in Argovia non c’è necessità di recarci in Calabria.
Un’altra mia passione recente è lo svizzero tedesco parlato dalle giovani generazioni di italiani. I due grandi filoni di ricerca sono il contatto linguistico nell’apprendimento di lingue seconde, il code-switching nel bilinguismo, dunque la sociolinguistica, interesse che ho ereditato da Berruto. L’altro grande filone è la fonetica descrittiva ad esempio come si trascrive lo svizzero tedesco, tema di miei due corsi.

Qual è la metodologia da Lei utilizzata?
C’è una forte componente empirica, mi baso ancora sulle registrazioni, aggiungendo le metodologie quantitative per avere sempre un buon numero di occorrenze. Precedentemente lavoravo di più con il parlato spontaneo e poi cercavo di estrarre le parti interessanti. La definirei una metodologia di tipo più qualitativo che quantitativo. Il problema è talora avere un numero sufficiente di dati. È un lavoro che richiede manualità e tempo. Ascoltare, riascoltare per ore. E poi analizzare.

Come giudica il linguaggio delle seconde generazioni che mescolano la lingua madre a quella di adozione?
Il bilinguismo e il code switching sono una realtà determinata dall’ambiente in cui le seconde generazioni crescono. Sarebbe utile dare la possibilità ai bambini di approfondire la loro lingua debole, cioè quella parlata a casa; ad esempio dovrebbero poter imparare a scuola a leggere e a scrivere nella loro lingua madre. Sul risultato a lungo termine le opinioni divergono. C’è chi dice che ciò può condurre alla nascita di una nuova lingua, mentre io affermo il contrario, giusto a proposito dell’italiano. Quello che si nota a lungo andare è infatti una perdita della lingua originale, come nell’esempio degli USA, in cui gli immigrati parlavano prevalentemente l’italiano, i figli di questi anche l’inglese, mentre dalla terza generazione in avanti è parlato solo inglese. Nella Svizzera tedesca si nota però un rallentamento in questo processo. Stiamo osservando la crescita della terza generazione, che molto spesso è monolingue. Perciò non si sa ancora come andrà a finire: la Svizzera è un laboratorio.

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